Italia Ebraica / Venezia - Verona - Padova

A Venezia, magia ebraica tra mercanti e stampatori

Il ghetto, gli angoli segreti, le splendide sinagoghe del ‘500. Tra passato e presente, alla scoperta delle radici gloriose e dei luoghi incantati dell’ebraismo veneto, dalla Serenissima a Padova e Verona

Piove di Sacco, provincia di Padova, meno di ventimila anime. Una piccola traversa di via Garibaldi, il cuore storico dove sorgono i palazzi dell’aristocrazia veneziana, si chiama via della Stamperia. Qui, Rabbi Meshullam Cusì, deputato alla raccolta fondi per i fratelli di Eretz Israel a metà del XV secolo, fondò la prima tipografia ebraica del Veneto. Secondo gli storici qui venne prodotta una delle prime opere al mondo (qualcuno dice la prima) in caratteri ebraici: l’Arbà aurim (I Quattro Ordini), di Jacob ben Asher, in quattro volumi, conservata alla Biblioteca universitaria di Torino e, in copia anastatica digitale, a Piove di Sacco.
Questa è una delle tante vicende del popolo ebraico in Veneto che, a dispetto dell’esiguità numerica delle attuali comunità – circa mille persone fra Verona, Padova e Venezia – ha radici profonde. Si scoprono scritte sulle pietre, narrate nei libri o dalle persone: un itinerario in Veneto e a Venezia (a due ore di treno da Milano), presuppone dunque il desiderio di guardare oltre ciò che è ancora visibile, per capire i molti fili sottesi ai rapporti degli ebrei locali con il territorio.
Nell’Alto Medioevo le origini degli insediamenti sono confuse, tanto da giustificare un probabile errore di interpretazione nel nome attribuito all’isola veneziana di Spinalunga, poi chiamata Giudecca. Oggi sembra infatti che il toponimo non si riferisca ad una forte presenza ebraica nel XII secolo, bensì al termine zudegà (giudicato), che la identificherebbe come semplice luogo di carcere e reclusione. Ben documentata è invece una forte immigrazione a partire dal XIII secolo nelle ricche campagne venete, dalla Germania, dalla Spagna e successivamente dall’Italia centrale, genti e famiglie che seguivano i loro commerci o fuggivano alle persecuzioni. Così come si ha notizia delle prime “condotte”, le concessioni delle autorità locali di risiedere esercitando l’attività di prestatori di denaro a tasso di interesse regolamentato. Sono documentate severe condanne di ebrei a Portobuffolé e Marostica nel XVI secolo a seguito dell’accusa infamante di infanticidio rituale. Parimenti si hanno descrizioni accurate delle belle sinagoghe di Conegliano e Ceneda, frazione di Vittorio Veneto, poi ricostruite con gli arredi originali a Gerusalemme. Di certo, Venezia unificò una serie di divieti (ad esempio quello di possedere beni immobili) e prescrizioni (l’attività di prestito) che regolamentavano la vita ebraica.

VENEZIA

Per uno strano scherzo della storia Venezia, che con il decreto del 29 marzo 1516 dava l’inizio effettivo alle segregazione degli Ebrei nei ghetti, battezzando i luoghi fisici col nome dialettale di una fonderia presente nella zona (getàr, cioè fondere, che i tedeschi ashkenaziti pronunciavano ghetàr), fu precedentemente “città senza ebrei”. La parola ghetto quindi viene da qui, nasce tra le calli e si espande tristemente per tutta l’Europa. L’origine della Comunità in Laguna è infatti incerta, ed i rapporti con il Senato poco definiti. Successivamente all’istituzione del Ghetto, invece, si ha una storiografia immensa sulla Comunità, formata all’inizio dai tedeschi in fuga dai lanzichenecchi che nel Ghetto Novo esercitavano il pegno e la “strazzarìa”. La seconda ondata, di ricchi mercanti levantini che vestivano (e pregavano) “alla turchesca”, si stabilì nel Ghetto Vecchio. Con l’ultima ondata di ponentini (sefarditi marrani) la configurazione assunse i caratteri attuali, con le case-grattacielo fino a nove piani e le sinagoghe, una per nazione, invisibili dall’esterno ma riccamente decorate all’interno. Alla più antica, la Scuola Tedesca del 1528, si accede dalle scale del Museo d’Arte Ebraica, che conserva una ricca collezione di stoffe e argenti degli oggetti delle feste: calici e bicchieri dello Shabbàt, candelieri del ‘700, portaspezie ottocenteschi, vari Shofàr, piatti in argento e pietre dure per il Pesach oppure per Purìm. Il tempio tedesco, con la sua sala trapezoidale, ha un matroneo elegantemente dorato, così come l’Aròn e la Bimà. Poco distante, da una struttura singolare con una cupola incastrata tra gli edifici si accede alla Scuola Cantòn, di quattro anni successiva, che deve il suo nome forse al fatto di trovarsi in un angolo (cantòn), o forse alla famiglia Cantoni, i finanziatori. È un ambiente armonico ed elegante, rivestito in legno di noce finemente scolpito, con la Bimà in una nicchia esagonale derivata dal Liagò, elemento dell’architettura veneziana di ascendenza araba. La terza Scuola, quella Italiana della fine del XVI secolo, si affaccia sul campo del Ghetto Vecchio, mentre dal prospiciente campiello delle Scuole si accede alle sinagoghe Spagnola – che colpisce per fasto e dimensione, aldilà della facciata austera – e Levantina, considerata l’edificio più elegante del ghetto, straordinariamente decorata e collegata alla Yeshivà Luzzatto, che conserva una preziosa Arca rinascimentale.
«Il Seicento è stato un secolo ricco culturalmente», racconta Gadi Luzzatto Voghera, direttore della biblioteca della Comunità Ebraica di Venezia. «Recandosi al cimitero al Lido, inaugurato nel 1386, si visitano le lapidi di personalità che hanno segnato l’epoca come Leone da Modena, rabbino, autore della Historia de’ riti hebraici, Elia Bahur Levita, studioso del Talmud, la poetessa Sara Copio Sullam celebre per il suo salotto letterario».
La Comunità di Venezia mantiene viva la sua cultura e le sue tradizioni, che si respirano entrando dall’antica porta sul canale di Cannaregio e passeggiando lungo la calle del ghetto Vecchio con il ristorante e le botteghe di cibo kasher e le due case-studio (Beit HaMidrash) di Leone da Modena e Vivante, fino al campo delle Scuole e poi oltre nella calle dell’Orto, dove ci fu un’area coltivata per la Comunità. Arrivando al grande campo del Ghetto Novo si incontrano negozietti di antiquari e Alef, l’ampia libreria di giudaica collegata al museo. Sulla destra si vede il portico che ospitava tre banchi di pegni, chiamati banco rosso, verde e giallo a seconda del colore dello scontrino che rilasciavano. Oggi il Banco Rosso è una bottega che vende vino kasher, ma è anche un piccolo museo che ricostruisce la bottega del prestito così com’era ai tempi della Serenissima: copie d’archivio, oggetti, e un video che  ne racconta la storia.
Ma Venezia è anche una comunità proiettata verso il futuro e desiderosa di valorizzare la propria identità locale: ha in progetto, per Expo 2015, di recuperare alcuni giardini interni, ripristinarli nelle loro funzioni di orto e ripiantare gli alberi biblici che fanno parte della tradizione delle festività. Una visita imperdibile.

VERONA

Sotto la Serenissima Repubblica di Venezia anche Verona ebbe il suo quartiere, in contrada San Sebastiano e successivamente nella zona adiacente a piazza delle Erbe detta “sotto i tetti”. Ancora oggi, sul lato sinistro della piazza si vedono alcune antiche case-torri a doppia finestra alte fino a sette piani, salvate dalla distruzione avvenuta tra il 1926 e il 1928. Un tempo, al quinto piano di uno di questi edifici, vi era una sinagoga di rito spagnolo, i cui arredi sono nell’attuale tempio, di rito tedesco. Ad esso si accede dalla via Mazzini, oltrepassando una targa di ottone sul selciato con la scritta “ghetto”, ma la facciata in stile decò è sulla parallela via Portici e riporta una lapide con un passo della Bibbia: “Molte donne si sono comportate valorosamente ma tu le superi tutte”. «La lapide ricorda il sacrificio di Rita Rosani Rosenzweig», spiega Lucia Forneron, presidente dell’Associazione Italia-Israele di Verona, «che fu l’unica donna medaglia d’oro al valor militare. Ebrea triestina, fuggita dopo l’8 settembre 1943 dalla sua città natale, combattè con i partigiani sopra Verona e morì salvando alcuni compagni». L’interno del tempio è grandioso, con un Aròn del ‘600 sovrastato dalla grande vetrata semicircolare, così come particolarmente monumentale è il cimitero veronese di Borgo Venezia, che conserva lapidi del XVIII secolo.

PADOVA

A Padova la libertà per gli ebrei aveva limiti paradossali: potevano frequentare la facoltà di Medicina ma dovevano pagare tasse universitarie doppie. Questa possibilità causò una grande immigrazione, anche se l’inaugurazione in università del primo teatro anatomico al mondo, nel 1595, diede inizio ad un’odiosa caccia al cadavere da parte degli studenti di anatomia che rubavano i defunti nel cimitero della Comunità, benché questa pagasse per preservarli.
Ben sette furono i cimiteri creati dalla Comunità a Padova, di cui quello di via Wiel risale al XIV secolo. È visitabile (previo appuntamento) ed è meta di pellegrinaggi di fedeli che arrivano a saltare il muro di cinta, pur di pregare sulla lapide di Meir Katzenellenbogen (sulla lapide una katze, una gatta accovacciata), il cosidetto Ma ha-Ram di Padova, celebre talmudista considerato santo. Qui si trova anche la sepoltura di Asher Levi Meshullam, Anselmo del Banco, il banchiere che nel 1513 trattò con la Repubblica Serenissima per la residenza degli Ebrei al Ghetto. Al “prato degli ebrei”, in via Codalonga, è invece sepolto Don Itzchak Abrabanel, grande studioso e ministro delle finanze che si battè fino all’ultimo, invano, per salvare la Comunità spagnola dall’espulsione dalla Spagna nel 1492, un’altra pagina nera della storia europea: né Isabella la Cattolica, né Ferdinando d’Aragona gli diedero ascolto, pur facendo finta e dandogli udienza.
I padovani del ghetto, quartiere ancora ben definito nel cuore storico della città, si occupavano di prestito, di “strazzarìa” (antiquariato), di vendita di metalli preziosi e gemme. Divennero perciò così ricchi da poter acquistare terre e case nelle campagne, come a Piove di Sacco (la prima ad accoglierli), Este e Montagnana. Oggi si entra al ghetto padovano da via San Martino e Solferino, dove hanno ancora sede l’ufficio della Comunità e l’unica sinagoga in attività, di rito italiano. Nella vicina Via delle Piazze c’era la sinagoga tedesca, bruciata dai fascisti nel 1943, rinata come centro culturale. Anche la sinagoga spagnola non esiste più e gli arredi sono ora collocati nella sede del Grande Rabbinato di Gerusalemme. Esiste, invece, una traccia ancora palpitante degli eventi che seguirono le Leggi razziali del 1938. Se infatti ci si reca in vicolo Aganoor (ex via Leopardi), si incontra un piccolo giardino nascosto dove era la sede della Scuola Privata Ebraica costruita affinché gli allievi e gli insegnanti espulsi potessero proseguire il programma di studi. «Oggi un monumento a forma di ruota, costruito con traversine della ferrovia, ricorda quei bambini», racconta Antonio Sorrenti, presidente del Centro Studi Triveneto sulla Shoah. «Il pro-rettore era Alberto Goldbacher, direttore Generale della Società Elettrica Veneta e docente presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università di Padova, poi espulso, che tanto si adoperò a livello nazionale per la costituzione delle scuole».
Arrestato nel ‘43 dopo che la scuola di Padova fu bruciata, fuggito dal campo di concentramento di Vò Euganeo con l’aiuto delle suore Elisabettiane, arrestato una seconda volta a Piove di Sacco e morto ad Auschwitz, di Godlbacher resta un giardino alla sua memoria a Salboro, alle porte di Padova, e una lapide nella piazzetta dove ha sede la Biblioteca di Piove di Sacco. «Gli abitanti di Piove», ricorda Sorrenti, «protessero 18 ebrei polacchi, tedeschi, serbi, di cui l’archivio storico comunale conserva documenti e diari». Verranno resi pubblici nel corso del 2015. Con analogo spirito umanitario ferrovieri e crocerossine fermarono a Padova il Convoglio II che il 18 ottobre ‘43 deportava ad Auschwitz gli ebrei romani rastrellati al Portico d’Ottavia: imposero ai nazisti di aprire i vagoni, offrirono cibo e acqua e aiutarono una donna a partorire. Nel quartiere Terranegra, il Tempio dell’Internato Ignoto è una chiesa-sacrario alle vittime dei lager voluto negli anni ‘50 da Monsignor Giovanni Fortin, internato a Dachau. Prospiciente il Giardino dei Giusti tra le Nazioni, onora tutti coloro che hanno salvato vittime di genocidi del XX secolo (quindi anche Bosnia, Ruanda, Armenia). Inaugurato nel 2008 con le sculture a sbarre di ferro arrugginito dello scultore Elio Armano, onora i Giusti con steli e alberi: fra di essi spiccano i nomi di Gino Bartali e Giorgio Perlasca. Una visita nel padovano si può simbolicamente concludere sui Colli Euganei. La cinquecentesca Villa Contarini Giovanelli Venier a Vò Euganeo (www.museovillavenier.it) fu requisita nel ‘43 dai repubblichini di Salò e utilizzata come campo di concentramento. Dei 120 internati padovani e tedeschi, fecero ritorno solo tre donne: «Quando arrivai ad Auschwitz avevo tredici anni e mi salvai dalla camera a gas perché sembravo una donna adulta, quindi potevo lavorare», ricordava tempo fa Sylva Sabbadini, cavia di Mengele, sopravvissuta insieme alla madre, Ester Hammer. Sempre sui Colli Euganei, l’imponente Abbazia benedettina di Praglia conserva, perfettamente restaurate, dieci tavole lignee dipinte con soggetti biblici e scritte ebraiche. Probabilmente settecentesche, sembrano essere decorazioni di parti mobili di una sukkà (visibili solo su richiesta,
www.praglia.it).

Info

Comunità Ebraica di Venezia
Segreteria
Sestiere Cannaregio 1146, 30121 Venezia
Tel. +39 041715012
Fax +39 0415241862

Sinagoga Scola Grande Tedesca, Campo del Ghetto Nuovo; Sinagoga Scola Canton, Campo del Ghetto Nuovo; Sinagoga Scola Italiana, Campo del Ghetto Nuovo; Sinagoga Scola Levantina, Campiello delle Scuole al centro del Ghetto Vecchio; Sinagoga Scola Ponentina o Spagnola, Campiello delle Scuole al centro del Ghetto Vecchio

The Jewish magic of Venice…

By a strange historic irony Venice, that with the decree of 29th March 1516 started up the actual segregation of the Jews in ghettos, was previously known as a “city without Jews”. The name ‘ghetto’ was given in dialect to the places where there was a foundry (getàr, that is to smelt, which the German Ashkenazis pronounced with a hard ‘g’). Hence the word ‘ghetto’ was created amidst the calli of Venice to sadly expand throughout Europe. The origin of the Community in the Venetian Lagoon is in fact uncertain, and the relations with the Senate poorly defined. Subsequent to the forming of the Ghetto however, an immense historiography exists on the Venetian Community, formed initially by Germans fleeing the Landsknechts, who in the Ghetto Novo practiced the pawn and “strazzaria” (moneylending) businesses. In the second wave, rich Levantine merchants who dressed (and prayed) “the Turkish way” established themselves in the Ancient Jewish Ghetto, or Ghetto Vecchio. With the last wave of Ponentini (Sephardic converts) the configuration took on the current characteristics, with ‘skyscraper’ houses up to nine storeys high and the synagogues, one per nation, unappealing from the outside but richly decorated from within. The oldest of them all, the German Schola of 1528, is accessed from the stairs of the Museum of Jewish Art, that preserves a rich collection of fabrics and silver objects for Jewish festival days: chalices and glasses for the Shabbat, eighteenth century candelabras and spice containers, various Shofars, silver and hard-stone plates for Pesach or Purim. The German temple, with its trapezoidal room, has an elegantly gilded women’s gallery, the same as the Aròn and the Bimà. Close by, via a singular structure with a dome wedged between the buildings, you can gain access to the Cantòn Schola, dated four years later, that may owe its name to the fact it is located in a corner (canton), or perhaps to the Cantoni family, its financers. It is a harmonious and elegant environment, panelled in finely sculpted walnut wood, with the Bimà in a hexagonal niche echoing the Liagò, an element of Venetian architecture of Arabic derivation. The third Schola, the Italian one of the end of the 16th century, faces out onto the square or ‘campo’ of the Ghetto Vecchio, while from the nearby ‘campiello’ of the Scholae you can access the Spanish synagogue – a striking building for its pomp and scale, despite the austere façade – and the Levantine synagogue, considered the most elegant building of the Ghetto, extraordinarily decorated and connected to the Yeshivah Luzzatto that preserves a precious Renaissance Ark. The Venice Community has kept alive its culture and traditions, you can breathe it entering the old gate on the Cannaregio canal and strolling along the calle of the Ancient Ghetto with the restaurants and the kosher food shops and the two house-schools (Beit HaMidrash) of Leon from Modena and Vivante, up to the Campo delle Scuole and beyond in the Calle dell’Orto where there was a cultivated area for the Community. But Venice is also a community that embraces the future and wishes to make the most of its own local identity: for Expo 2015, it plans to recover some internal gardens, return them to their function as vegetable gardens and replant biblical trees that are part of the Jewish tradition of festivities. Well worth a visit.

VERONA

Under the Venetian Republic, also Verona had its quarter, in contrada San Sebastiano and subsequently in the area beside Piazza delle Erbe called “sotto i tetti, literally “below the roofs”. Still today, on the left side of the piazza some ancient, double windowed tower-houses, some up to seven storeys high, can be seen, saved from the destruction that took place in 1926 and 1928. Once the fifth floor of one of these buildings housed the Spanish rite synagogue, whose furnishings are now in the current German-rite temple. Access to this synagogue is from via Mazzini, passing over a brass plaque set in the paving that bears the word “ghetto”. The temple interior is grandiose, with an Aròn of the Seicento crowned by the great semicircular glass window. Particularly monumental is the Veronese cemetery of Borgo Venezia with its eighteenth century gravestones.

PADUA

In Padua the freedom of the Jews had paradoxical limits: they could attend the faculty of Medicine but they had to pay twice the university fees. This possibility caused a great wave of immigration, even if the inauguration of the university’s first anatomical theatre in the world, in 1595, brought about a deplorable hunt for bodies by anatomy students, who went as far as stealing the dead from the Community cemetery, despite the dues paid by the Community to retain the corpses.

The Padua community created as many as seven cemeteries, that of via Wiel harking back to the 14th century. It can be visited (by prior appointment) and is a place of pilgrimage for worshippers, who even scale its outer walls to be able to pray on the gravestone of Meir Katzenellenbogen (whose stone bears a crouching Katze or cat), the so called Ma ha-Ram of Padua, a famous Talmudist, considered a saint by many. Here you will also find the grave of Asher Levi Meshullam, or Anselmo del Banco, the banker who in 1513 negotiated for the residency of the Jews in the Ghetto with the Venetian Republic. In turn the “prato degli ebrei” (the Jews’ lawn) in via Codalonga contains the tomb of Don Itzchak Abrabanel, great scholar and minister of finance, who vainly battled to the last to save the Spanish Community from expulsion from Spain in 1492.

The Paduans of the ghetto, a quarter still well-defined at the heart of the city’s historic town centre, dealt in moneylending, the sale of precious metals and gems. Today you enter the Paduan ghetto passing along Via San Marino and Solferino, where the Community still has its offices alongside the only synagogue still active, of Italian rite. The close-by Via delle Piazze hosted the German synagogue, burned down by the Fascists in 1943 and reborn as a cultural centre. Neither does the Spanish synagogue still exist, its furnishings are now housed in the seat of the Great Rabbinate of Jerusalem. There are though still poignant traces of the events that followed the Fascist Racial laws in 1938. In vicolo Aganoor you will find a small hidden garden that was where the Private Jewish School once stood. It was set up so that the expelled students and teachers could continue the study program. The quarter of Terranegra hosts the Temple of the Unknown Internee, a church-sacrarium to the victims of the lagers set up in the fifties by Monsignor Giovanni Fortin, himself a Dachau internee. Close by, the Garden of the Righteous Among the Nations honours all those who have saved victims from the genocides of the twentieth century (hence also Bosnia, Ruanda, Armenia). The names honoured include those of Gino Bartali, the renowned champion road cyclist, and Giorgio Perlasca, who came to be known as “the Italian Schindler. A visit to Padua can symbolically end on the Euganean Hills. The Cinquecentesque Villa Contarini Giovanelli Venier at Vò Euganeo (www.museovillavenier.it) was requisitioned in ’43 by the Republic of Salò and used as a concentration camp. Of the 120 Paduan and German internees who passed through there, only three women ever returned. Still on the Euganean Hills, the imposing Benedictine Abbey of Praglia preserves ten perfectly restored wooden tablets painted with biblical subjects bearing Hebrew script. Probably eighteenth century, they seem to be decorations of the mobile parts of a sukkah (only viewable upon request www.praglia.it): from the Venetian form of the Italian “straccio” (rag), initially indicating the peddling of secondhand clothes and other items, to include the trade of memorabilia and even antiques.

(traduzione Studio Interpreti)