Aslanov. Diaspore in cammino, lingue e identità alla deriva

Opinioni

Il filologo Cyril Aslanov alla Giornata europea della cultura ebraica a Milano 10/9/2017)Pubblichiamo la lectio pronunciata dal professore Cyril Aslanov (Aix-Marseille Université/CNRS; Università Statale di San Pietroburgo; Accademia della Lingua Ebraica, Gerusalemme), riportata da Tempi, in occasione “Giornata europea della cultura ebraica” (Milano, 10settembre).

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Durante gli ultimi decenni, l’opinione pubblica del mondo occidentale ha scoperto con una certa ingenuità una realtà che è sempre esistita, quella delle migrazioni e delle diaspore transnazionali. In questo intervento vorrei mostrare attraverso esempi presi nella storia linguistica e culturale del popolo ebraico che l’estrema mobilità geografica non è necessariamente una minaccia per la preservazione dell’identità che può sopravvivere al cambio di lingue vernacolari purché sia preservato l’uso della lingua sacra nell’ambito della religione e della cultura.
Vorrei usare questo criterio della preservazione dell’identità linguistica per distinguere quattro modalità di migrazione:
1. Migrazioni senza a senso unico
2. Migrazioni ripetute nello spazio di poche generazioni
3. Migrazioni centrifughe (modello della ramificazione multipla)
4. Migrazioni centripete

Per ognuno dei questi casi applicati a un episodio della storia ebraica e paragonato con uno scenario analogo nella storia di altre comunità etniche, vorrei concentrarmi sulla questione della preservazione della lingua.

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  1. Migrazioni a senso unico

Si tratta qui dello spostamento di popolazioni intere da un paese all’altro senza via di ritorno come l’emigrazione europea agli Stati Uniti che provocò nello spazio di due-tre generazioni l’erosione e la scomparsa della lingua originale. Nell’ambito ebraico, questo modello si verifica per quanto riguarda 1 millione e mezzo ebrei che lasciarono l’Impero russo per raggiungere gli Stati Uniti durante gli anni 1881-1914. La generazione degli immigranti parlava naturalmente yiddish e cercava di parlare inglese. Le due prime generazioni conservarono un uso domestico dell’yiddish e parlavano già inglese come tutti gli altri americani. La quarta generazione aveva solo un ricordo frammentario dello yiddish.

Questa erosione del vernacolare ebraico dell’Europa orientale può essere paragonata alla scomparsa progressiva dei dialetti italiani meridionali nei ceti degli immigranti provenienti dalla Campania, dalla Calabria e dalla Sicilia. In questo processo di perdita dell’identità linguistica, gli ebrei est-europei radicati negli Stati Uniti avevano per lo meno il vantaggio di poter contare sulla lingua sacra (pronunciata secondo la fonetica che prevale tradizionalmente nel mondo ashkenazita) per manifestare la loro lealtà linguistica nei confronti del proprio passato. Questa lealtà linguistica sopravvisse in un certo modo quando la pratica religiosa in un ambiente tradizionale venne sostituta o rafforzata dall’identificazione con lo Stato di Israele, incitando molti ebrei americani descendenti di yiddishofoni ad imparare l’ebraico israeliano invece di ripristinare la conoscenza dello yiddish, praticato solo da ebrei ultraortodossi o da gruppetti di giovani idealisti che vogliono appunto allontanarsi dal mainstream ebraico americano, attratto piuttosto dall’ebraico moderno israeliano.

Tuttavia quando la lingua ebraica non viene conservata nella pratica religiosa e non è neppure sostituita da una conoscenza basica dell’ebraico israeliano, la situazione linguistica degli ebrei americani non è così diversa da quella degli italodescendenti statunitensi: si preserva la memoria dell’identità etnico-religiosa, ma senza i mezzi linguistici per esprimerla. In questo caso si preservano solo frammenti delle lingue perse (yiddish e ebraico liturgico o israeliano in uno caso; italiano dialettale nell’altro). Qui si verifica il ruolo fondamentale dell’ebraico come modo di preservazione dell’identità ebraica anche dopo la scomparsa dello yiddish e inversamente, la minaccia dell’assimilazione che pesa sulle comunità ebraiche americane della tendenza riformata che ha parzialmente abbandonato l’uso dell’ebraico come lingua liturgica.

  1. Migrazioni ripetute nello spazio di poche generazioni

Questo modello caratterizza comunità in cerca di un rifugio in un’epoca di vicissitudini e di persecuzioni. A lungo termine, si vede come gli ebrei palestinesi che lasciarono Eretz Israel a causa della conquista arabo-musulmana del paese in 635-638, che rovinò l’economia locale, si trasferirono in altre provincie dell’Impero bizantino (come l’Apulia, il bastione più occidentale dell’Impero dopo le perdite territoriali del settimo secolo). Dopo la conquista dell’Italia dai carolingi nel 774, queste comunità ebraiche bizantine ellenofone che poco a poco cambiarono il greco con l’italo-romanzo cominciarono a sistemarsi più vicino del centro dell’Impero carolingo, diventato il Sacro Romano Impero nel 962. Così nacque l’ebraismo ashkenazita germanofono, preservando la sua germanofonia anche dopo il trasferimento degli ebrei tedeschi dalla Germania alla Polonia o alla Lituania nel tardo Medioevo. In quelle terre remote dell’Europa orientale, i dialetti tedeschi medioevali passarono per un processo di slavizzazione, dando nascita allo yiddish, che si conservò nello spazio di due o tre generazioni anche dopo l’immigrazione menzionata sopra di 1 milione e mezzo di ebrei dall’Europa orientale agli Stati Uniti fra il 1881 e il 1914. L’ultima fase di queste conversioni linguistiche ripetute è l’anglofonia nell’ambito della Nazione americana.
Se cerchiamo un parallelo a queste vicende che provocarono un cambio dell’identità linguistica e culturale a tal punto che nello spazio di 1000 anni, gli ebrei ellenofoni della Palestina bizantina diventarono anglofoni dopo essere stati italofoni, germanofoni e yiddishofoni, troviamo i gitanos della Penisola iberica. Una volta lasciata il nordovest dell’India verso l’anno 1000, i rom raggiunsero il mondo iraniano verso l’undicesimo secolo e da lì si propagarono verso l’Armenia e l’Impero bizantino. Nel Quattrocento cominciarono a trasferirsi verso Occidente e raggiunsero la Catalogna nel 1447. A quei tempi parlavano ancora la loro lingua detta romaní, lingua indoaria con una forte componente lessicale armena e greca. Tuttavia, lungo i secoli, i rom della Penisola iberica lasciarono la loro lingua indoaria e adottarono una varietà di spagnolo chiamata caló (abbreviazione di zincaló, un termine apparentato all’italiano zingaro). In questa varietà zingara di spagnolo sopravvivono vestigi lessicali dell’antico uso del romaní (il quale è ancora vivo dai rom dell’Europa centrale, orientale e balcanica).

  1. Migrazioni centrifughe (modello della ramificazione multipla)

È successo spesso durante la storia ebraica che a causa delle espulsioni scatenate dall’intolleranza religiosa, gli ebrei abbiano dovuto lasciare un paese dove si erano sistemati da molti secoli per disperdersi in varie direzioni. Qui possiamo paragonare due esempi di questo tipo di migrazione centrifuga in varie direzioni. Il più famoso è quello dell’espulsione degli ebrei dalla Spagna nel 1492. Tra i 200.000 ebrei che lasciarono il regno una parte raggiunse l’Impero ottomano passando per l’Italia e un’altra trovò rifugio nel Nordafrica. Questa immigrazione in due direzioni molto diverse (est e sud) non provocò generalmente la perdita dell’uso dello spagnolo che gli espulsi parlavano prima del 1492. Nell’Impero ottomano, nel Nord del Marocco e ad Oran, la pratica dello spagnolo si preservò anche se in un modo trasformato dal contatto con il turco in Oriente o l’arabo in Occidente. Solo nell’interiore del Marocco, ad Algeri e in Tunisia, lo spagnolo venne sostituito dall’arabo. Per apprezzare questa lealtà linguistica nei confronti della lingua della patria perduta, basta paragonare la preservazione della lingua spagnola in ambienti sefarditi con la perdita della lingua che accompagnò l’esilio di un’altra comunità ebraica espulsa durante varie tappe del quattordicesimo secolo. Mi riferisco agli ebrei del Regno di Francia che fra il 1306 e il 1394 vennero espulsi progressivamente. Una parte si rifugiò nel Sacro Romano Impero dove si assimilò linguisticamente alle comunità ebraiche locali, la cui lingua era il tedesco medioevale. Un’altra parte raggiunse il Delfinato e da lì il Piemonte dove perse l’uso del francese per diventare parte dell’ebraismo italiano. Per quanto riguarda gli ebrei che vivevano nel Linguadoca, parte della Corona francese dal 1229, trovarono rifugio nel Regno di Aragona, specialmente a Maiorca, da dove si trasferirono in Algeria a causa delle persecuzioni antisemite di 1391. Ora, a parte la memoria storica che permette di dedurre un’origine francese o francese meridionale dal cognome (Wollach o Bloch nel mondo ashkenazita; Sarfati o Francés nel mondo sefardita, tutti cognomi che significano “francese” in tedesco, in ebraico o in spagnolo), l’uso del francese o del provenzale scomparse dopo qualche generazione.
Un parallelo a quest’espulsione degli ebrei francesi o linguadociani che risultò in un movimento centrifugo e nella perdita della lingua usata dal paese di origine si trova nella storia degli Ugonotti. Espulsi dalla Francia dopo la Revocazione dell’Edito di Nantes, i protestanti francesi furono raccolti dai paesi dell’Europa settentrionale che condividivano la loro religione: Prussia o altri stati luterani dell’odierna Germania; Olanda e a continuazione la Colonia del Capo; Inghilterra e a continuazione le Tredici colonie). Gli ugonotti diventati prussiani, olandesi o inglesi non mantennero l’uso del francese e solo la storia familiare e il cognome poteva rivelare che un ufficiale prussiano, un colone sudafricano o un latifondista degli Stati Confederati avesse un’origine francese ugonotta.

  1. Migrazioni centripete

Termineremo questa riflessione sul legame fra migrazione e deriva dell’identità linguistica con il paradigma del qibuts galuyot, la riunione degli esiliati che evvenne a partire del 1948 con la creazione dello Stato di Israele e l’abolizione delle limitazioni che i britannici avevano imposto all’immigrazione ebraica in Palestina. In questo caso, l’immigrazione nella terra ancestrale diventata lo Stato-nazione del popolo ebraico ebbe per conseguenza un’altra conversione linguistica, un’altra perdita della lingua, in questo caso le lingue diasporiche sostituite dall’ebraico, lingua ancestrale ripristinata.
Ora questa riconessione con il patrimonio linguistico ancestrale nell’ambito di uno Stato-nazione diventato luogo di raduno di varie diaspore è un processo ben conosciuto nella turbulenta storia del ventesimo secolo: rimpatrio di armeni della Diaspora (especialmente dalla Siria e del Libano) nella Repubblica d’Armenia nel 1946 con la necessaria adattazione linguistica che consisteva a cambiare l’armeno occidentale per l’armeno orientale pur conservando l’uso dell’armeno occidentale nell’ambiente domestico; rimpatrio dei tedeschi etnici da vari territori dell’Europa centrale e orientale; e più recentemente accoglio di Abcasi siriani o turchi nella Repubblica di Abcasia, stato secessionario della Georgia, appogiato dalla Russia.

Conclusione

Questo panorama della relazione fra le vicende migratorie e la lealtà linguistica ha contribuito a relativizzare l’unicità dell’esperienza ebraica nella preservazione della lingua. Fra i quattro paradigmi indagati, gli unici esempi di vera preservazione dell’identità linguistica a livello della lingua vernacolare sono lo yiddish e il giudeospagnolo, due lingue che però non hanno realmente sopravvissuto alle ultime vicende migratorie delle comunità ebraiche, costrette a lasciare l’ambiente est-europeo o post-ottomano per trovare un rifugio nelle grandi metropoli dell’Occidente o in Israele.

Ma la vera lealtà linguistica manifestata attraverso tante generazioni a prescindere del frequente cambio di lingue vernacolari è legata al mantenimento della lingua ebraica, al meno come lingua liturgica e culturale, e dalla fine del Ottocento come lingua di comunicazione moderna.