Philip Roth

Due anni senza Philip Roth: la testimonianza di un ebreo ortodosso che imparò da lui a essere“un ebreo Americano”

Taccuino

di Roberto Zadik
La morte a 85 anni, avvenuta esattamente due anni fa, il 22 maggio 2018, del brillante e dissacrante Philip Roth, scrittore ebreo americano di origini russo-galiziane, ha lasciato un vuoto enorme. Con opere corrosive come Il lamento di Portnoy denso di riferimenti scabrosi e “Una pastorale americana” egli ha descritto “il lato oscuro della sua America” fornendo un punto di vista ebraico laico decisamente originale per linguaggio e tematiche e la sua influenza oltrepassa le differenze religiose e ideologiche. Tanto che, due anni fa usciva sul New York Times un interessante articolo su quanto questo autore decisamente “poco ortodosso” abbia colpito anche alcuni esponenti del mondo religioso newyorchese. E’ il caso di un ebreo molto “frum” (come si dice in Yiddish, osservante) di nome Taffy Brodesser Akner che sul New York Times descrive in che modo Roth lo colpì molto profondamente. In cosa? Insegnandogli “ad essere un ebreo americano”.

“Sono cresciuto in una famiglia ortodossa e ho frequentato la scuola ebraica religiosa dove ho studiato la Torah e le preghiere e anche un po’ di Yiddish. Ovviamente non era una lettura di quelle della mia yeshiva ma l’ho scoperto casualmente” ha rivelato nel suo intervento.”Non sapevo cosa volesse dire essere un ebreo americano, nonostante i miei studi storici dall’Inquisizione alla Shoah fino a quando non ho letto questo autore” ha rivelato entusiasta. “Mia madre era una donna molto rigida e cercava di proibirmi qualsiasi lettura “vietata” ma mia sorella maggiore, Tracy, portò a casa una copia de “Il lamento di Portnoy” nascosto da una copertina molto “seria” che ne camuffava il contenuto”. Da quel momento la svolta, quando il ragazzo iniziò ad appassionarsi a quell’autore così “scomodo” per un certo ambiente poco propenso a quel genere di letture così “audaci” e iniziò a divorare diversi classici di Roth, da “Goodbye Columbus” fino a “Portnoy”. Nonostante le resistenze famigliari e la madre che vedeva i suoi libri come “il nemico”, l’autore iniziò ad appassionare sempre di piùil ragazzo. Per quali motivi? La sua analisi delle tensioni sociali in Goodbye Columbus, i pericoli del mondo in Pastorale americana, il tema dell’assimilazione e dei matrimoni interreligiosi in Indignazione. “Roth esprimeva nella realtà quello che mi era stato insegnato” ha sottolineato Taffy, “stimolandomi a riflettere su cosa significhi essere un ebreo in America, a interrogarmi sulla religione e la cultura e su quanto si possa ironizzare su questa condizione e se sia positivo o meno essere quello che siamo e su come comportarci nel mondo moderno. Se il mondo esterno ci apprezza o semplicemente ci tollera”.

Un’analisi quanto mai lucida e obbiettiva che evidenzia l’importanza e l’attualità di Roth in questo complesso 21esimo secolo, per l’identità ebraica americana odierna troppe volte segnata da episodi antisemiti così come da assimilazione e da fratture profonde fra laici e religiosi. In Roth e nei suoi libri c’erano tutte queste tematiche, sviluppate con egregia lucidità già dalla metà degli anni ’60. “Roth non ha scritto solo per noi ebrei ma ha documentato la realtà americana” ha sottolineato Taffy “ma per tutto il mondo ricordando come un ebreo non dovrebbe mai dimenticare la propria diversità anche se molti hanno cercato di farlo”. In conclusione ha ricorrdato come “molti accusassero lo scrittore di provare il famoso odio di sé ma non è assolutamente vero. Ha solo spianato la strada per legittimare l’esperienza ebraica americana fra il pubblico non ebraico. Con ogni libro, ogni domanda, con le critiche e le sue indignazioni, ha ricordato come la nostra esperienza di ebrei americani meriti di essere valutata e considerata”.