Essere ebrei nell’Africa subsahariana contemporanea: il curioso caso degli ebrei ugandesi

Personaggi e Storie
di Anna Balestrieri
Una storia che combina colonialismo britannico, sperimentazione religiosa, ambizioni politiche locali e, più tardi, repressione militare durante la dittatura di Idi Amin Dada.

Nel quadro di un seminario della facoltà di Sciences Po a Parigi, guidato da Nadia Malinovich e dedicato ai giudaismi contemporanei, l’intervento di Isabella Soi ha offerto al pubblico una ricostruzione avvincente e rigorosa della nascita, frattura e rinascita della comunità ebraica ugandese. Una storia che combina colonialismo britannico, sperimentazione religiosa, ambizioni politiche locali e, più tardi, repressione militare durante la dittatura di Idi Amin Dada.

Il cuore del racconto: Semei Kakungulu

Soi ha collocato al centro della narrazione la figura di Semei Kakungulu (1869–1928), generale, amministratore coloniale per conto dei britannici e infine fondatore della comunità Abayudaya nel 1917. Kakungulu non è un personaggio marginale: è uno dei protagonisti politici della regione tra fine Ottocento e primo Novecento, un uomo che ha servito il potere coloniale e al contempo tentato di ritagliarsi spazi di sovranità personale.

Isabella Soi

La relatrice ha ricostruito gli elementi cardine della sua parabola. La prima formazione religiosa: educato al cristianesimo protestante, impara a leggere la Bibbia in swahili. Il ruolo militare e amministrativo: con i suoi guerrieri baganda conquista per conto dei britannici Bukedi e Busoga, diventando Presidente del Lukiiko di Busoga — una sorta di “re senza corona”, come lo definirono i missionari. Poi la delusione politica: quando il potere coloniale rifiuta di riconoscergli uno status sovrano, Kakungulu rompe progressivamente con l’amministrazione britannica. E il passaggio al movimento malakita, un cristianesimo eterodosso dal forte interesse per l’Antico Testamento. Infine, la svolta del 1917: a Gangama, sul Monte Elgon, abbandona definitivamente i missionari e fonda un nuovo gruppo, inizialmente chiamato Kibiina Kya Bayudaya Absesiga Katonda — la comunità dei “Giudei che confidano nel Dio onnipotente”.

Soi ha sottolineato come l’adesione di Kakungulu all’ebraismo non fu il frutto di contatti antichi o tradizioni perdute, bensì una scelta testuale, biblica e identitaria, ancorata alla lettura autonoma del Tanakh e alla decisione di osservare i comandamenti mosaici, compresa la circoncisione. Una religione reinventata in una periferia dell’Impero.

Il momento decisivo: l’incontro con gli ebrei europei (1925)

Uno dei passaggi più suggestivi evidenziati da Soi riguarda l’arrivo, quasi fortuito, di alcuni tecnici ebrei europei impiegati dai britannici negli anni Venti. Questi incontri avrebbero “corretto” l’ebraismo sincretico dei primi Abayudaya, con l’introduzione del sabato come Shabbat pieno, l’abbandono del battesimo, l’uso dell’ebraico nelle preghiere, e la macellazione kosher.

Per Soi, questo è il momento in cui il movimento di Kakungulu — ancora impregnato di cristianesimo — si trasforma in una comunità ebraica riconoscibile dall’esterno.

Una comunità alla prova della storia: persecuzioni e resistenza

Dopo la morte di Kakungulu nel 1928, la comunità attraversa divisioni interne e fasi di isolamento, ma nulla la segna quanto gli anni Settanta, al centro dell’analisi storica proposta da Soi.

Il regime di Idi Amin Dada — il dittatore che regnò con un misto di terrore e imprevedibilità tra 1971 e 1979 — condusse una politica di sospetto verso qualsiasi gruppo minoritario o percepito come “non autoctono”. La rottura diplomatica con Israele e l’alleanza con Gheddafi trasformarono gli ebrei ugandesi in una presenza scomoda, con una moltiplicazione dei controlli militari nelle zone rurali, episodi di intimidazione, limitazione delle attività religiose, con conseguenti esodo o occultamento di parte della comunità.

Soi ha mostrato come, in controtendenza rispetto al suo isolamento nazionale, il piccolo gruppo degli Abayudaya diventasse proprio in quegli anni oggetto di interesse da parte di organizzazioni ebraiche internazionali, aprendo il percorso che porterà, nel secondo dopoguerra africano, a forme di riconoscimento da parte del giudaismo riformato, conservatore e, in alcuni casi, ortodosso.

Due comunità oggi: Kampala e l’Est ugandese

Nella parte conclusiva, Soi ha descritto il quadro contemporaneo:

  • la comunità urbana di Kampala, mista, cosmopolita, integrata nei circuiti ebraici internazionali;
  • la comunità storica dell’Est, erede diretta di Kakungulu, ancora oggi radicata nei villaggi vicino a Mbale.

Due volti dello stesso ebraismo africano, sospesi tra tradizione reinventata, globalizzazione religiosa e memoria delle violenze politiche del Novecento.

L’intervento di Isabella Soi ha restituito profondità storica e vivacità antropologica a una vicenda spesso trattata come curiosità esotica. La figura di Semei Kakungulu, con la sua ambizione politica frustrata, il suo rigore biblico e la sua capacità di generare una comunità che sopravvive ancora oggi, emerge come l’elemento più potente della narrazione.

Accanto a lui, l’ombra del regime di Idi Amin conferisce alla storia degli Abayudaya una dimensione tragica e, paradossalmente, resiliente.

Un seminario che ha mostrato come l’Africa dell’Est non sia un margine della storia ebraica contemporanea, ma uno dei suoi laboratori più sorprendenti.