Ebrei d’Egitto e dolci ricordi: stavamo davvero così bene?

di Daniel Fishman

Riflessioni sessant’anni dopo la fine della Comunità ebraica

Crisi di Suez 1956. Più vicini all’Occidente o al nazionalismo egiziano? Tre diversi modi di essere, un’unica fine: espulsi.
Che cosa resta oggi di un mondo ebraico millenario?

 

Autunno 1956. In pochi giorni il mondo si ribalta coi fatti d’Ungheria e con la Guerra di Suez. È anche la data che segna, de facto, la fine della comunità ebraica in Egitto.
Fu la drammatica ed immediata conseguenza della guerra tra i Paesi arabi e Israele, o la logica conclusione di un processo politico e sociale in atto da tempo? Per rispondere bisognerebbe conciliare la ricostruzione storica e le memorie personali. Un esercizio molto difficile per gli ebrei provenienti dai Paesi arabi, fortemente condizionati dal quadro psicologico con il quale hanno elaborato lo sradicamento, “la recisione”, e cioè la subitanea dipartita dai paesi nei quali vivevano. Alcuni di loro hanno preferito rimuovere tutto, mentre la maggior parte conserva ricordi filtrati e un poco semplicistici (“convivevamo bene con resto della popolazione, davamo un importante contributo alla vita economica e culturale del paese, ma poi improvvisamente tutto è cambiato e ci hanno ingiustamente cacciato via…”).
A distanza di 60 anni si può dire che è generalmente mancata la capacità di inquadrare e interpretare i fatti non solo sulla base dell’esperienza personale. Emerge invece di solito il nostalgismo acritico de la belle vie d’antan, sentimento umanamente comprensibile, ma che storicamente ha dei limiti. Nel caso dell’espulsione dall’Egitto bisogna considerare un quadro generale molto più articolato.
Ha innanzitutto senso riflettere sul fatto che la comunità ebraica fosse fondamentalmente concentrata nelle grandi città, Il Cairo ed Alessandria, città aperte e cosmopolite per definizione. Ma vi era, come vi è oggi, anche l’Egitto della “chiusura”, quello del fondo nilotico, Kom Ombo, dove non sono mai penetrate le influenze straniere, e dove conoscono poco i copti e ancor meno gli ebrei. È proprio lì, nel grande sud, che si sviluppano i Fratelli Musulmani, primi fautori già negli anni ’20 di una rinascita nazionale per via islamica.
Più in generale, tutto l’Egitto rurale, maggioritario nella popolazione, non aveva nulla a che fare con il cosiddetto “chilometro d’oro” del Cairo, dove si produceva e gestiva la ricchezza nazionale, o nei quartieri residenziali come Zamalek o al Garden City, zone della borghesia ebraica. E questo non perché i fellahin non potessero andarci, ma perché non era il loro posto, se non come domestici.
In quelle aree privilegiate, però, non metteva piede neppure la maggior parte della comunità ebraica, e cioè il 60% di ebrei di status più modesto che vivevano nel haret el jahud o in altri quartieri cittadini dove, salvo la religione, condividevano con i musulmani una vita di fatica e piccoli commerci, senza particolari fasti. Di questa gran parte della comunità, per lo più emigrata in Israele negli anni ‘50, poco si parla, mentre magari è più noto il fatto che di Rosh Hashanà e Yom Kippur la Borsa del Cairo rimanesse chiusa per la mancanza degli operatori e dei clienti.
Una comunità piuttosto variegata dunque, e non un blocco unico, ricco e influente. Per capirlo, basta considerare come si era costituita, a ondate successive, la comunità ebraica egiziana. A parte gli “antichi” caraiti che meritano un discorso a parte, c’era la presenza storica di un radicato nucleo di musta arbin, ebrei residenti in Egitto dai tempi del Medioevo ai quali si erano poi aggiunti i megorashim (esiliati dalla Spagna) e i mograbim (magrebini) dediti al commercio e favoriti dalle leggi ottomane.
Solo in seguito all’apertura del Canale di Suez, il 17 novembre 1869, erano arrivati anche tanti ebrei europei e perfino un nutrito gruppo di circa 6.000 ebrei ashkenaziti.
Tutte queste diverse “comunità ebraiche egiziane” come si rapportavano rispetto all’identità del loro Paese? In diverse maniere, conseguentemente alla loro provenienza e storia passata. Tre diverse figure emblematiche possono più di altre sintetizzare i diversi atteggiamenti.
Il primo è Sanoua Abu Naddar, un uomo di teatro, giornalista ebreo di gran fama, che scriveva in arabo dialettale e traduceva Molière e altri europei adattandoli alla cultura egiziana. Quando si sviluppa il primo movimento nazionalista, sulla base della richiesta di una diminuzione dell’influenza europea e sotto lo slogan “l’Egitto agli egiziani”, queste idee trovano la sua piena adesione. Sanua diventa un polemista contro le influenze straniere e si schiera apertamente per la rivolta maadista sudanese del 1882 contro le truppe inglesi. In Egitto si batte apertamente per l’idea di creare una nuova identità nazionale egiziana, basata su una lingua egiziana moderna unificante; la creazione di questa nuova identità andava però, a suo modo di vedere, accompagnata dall’interscambio con le altre culture. Quando arriveranno gli inglesi in Egitto, Sanua andrà in esilio in Italia, dove morirà nel 1912.
Sanua, un musta arab seppur occidentalizzato, è il prototipo del tentativo di costruzione di una identità egiziana, in cui serviva anche un apporto originale ebraico.
Opposta a quella di Sanua è la posizione della famiglia Menasce, ebrei triestini arrivati in Egitto dall’Impero austroungarico. Una famiglia di grandi filantropi (è del 1873 la grande sinagoga Menasce di Alessandria) e ai quali si deve anche la fondazione di diverse realtà scolastiche ebraiche egiziane, scelta maturata dopo le accuse di deicidio emerse in alcune scuole cattoliche. I Menasce sono dichiaratamente sionisti e scivolano a poco a poco verso l’idea che la migliore prospettiva per la comunità ebraica egiziana sia quella di aderire totalmente all’occidente, attraverso l’europeizzazione dell’élite egiziana. Rispetto alla domanda nazionalista, si pongono in posizione di comprensione, ma non di adesione come invece avviene con Sanua. Pro-egiziani dunque, ma non dichiaratamente egiziani. A testimonianza dello sbilanciamento filoeuropeo, Elie Menasce nel 1920 viene nominato barone da Francesco Giuseppe, diventando così uno dei pochi ebrei nobili dell’epoca.
Gli ebrei che si ritrovano nella posizione dei Menasce scelgono di utilizzare il francese come lingua franca, di frequentare le scuole ebraiche, inglesi, francesi, e di possedere diversi passaporti europei, ma solitamente non quello egiziano.
La terza posizione è quella rappresentata dalla famiglia Cattaui, che deve il suo cognome a Qata, nome di un sobborgo del Cairo. È una antica famiglia ebraica egiziana e, rispetto a Sanua e a Menasce, ha una posizione intermedia. I suoi membri sono tra i maggiori banchieri d’Egitto, industriali del cotone, impegnati nella costruzione del Canale, persone di fiducia della famiglia reale e come tali tradizionali difensori degli interessi della comunità ebraica. I Cattaui sono sia contrari allo sviluppo nazionalistico sia all’eccessiva apertura agli stranieri. Propugnano piuttosto un’alleanza delle élite alessandrine e cairote, in primis con la tradizionale componente urbana copta, con gli “ottomani” (gli albanesi e i circassi che controllavano l’esercito) e più in generale con la parte aristocratica delle comunità straniere (italiani, francesi, greci, maltesi).
In questo disegno, Cattaui è alleato della famigli copta dei Butros Ghali, in un tentativo che potremmo definire di “modernizzazione pilotata” del paese e di controllo delle pulsioni nazionalistiche. Quest’idea “mediana” di sommare il meglio dell’oriente e il meglio dell’occidente era anche la prospettiva dei massoni come Lesseps, ma anche e soprattutto dei comunisti, forza politica in progressiva espansione nel paese, e caratterizzata da una chiara leadership ebraica (Hillel Schwartz prima e Henri Curiel poi).
Gli ebrei comunisti, fino al 1948, trovarono una giustificazione della loro scelta anche in una chiave pro-ebraica e antifascista, contro i fascisti-islamici schierati invece in Palestina con il Muftì. Per loro e per tutti quelli schierati nelle tre diverse prospettive qui riassunte, le cose cambieranno radicalmente nel 1948. La guerra dell’Egitto contro Israele costituì un primo trauma, e les evenements, e cioè l’assalto al quartiere ebraico e alle proprietà ebraiche del 1952, ne furono la riprova quattro anni dopo. Ma come pensare di andare via da un paese dove tutto sommato, passate queste bufere, la vita riprendeva per molti con lo stesso tenore di prima?
I più motivati avevano fatto l’alyià in Israele, qualcuno mandava i figli all’estero, ma il grosso della comunità continuava a fare buon viso a cattivo gioco. La de-colonizzazione che stava avvenendo in tutto il mondo apriva però intanto gli occhi alle masse indigenti, portando maggiore consapevolezza sui temi dei diritti nazionali e sociali.
Non fu pertanto difficile a Gamal Abd el-Nasser, indicare a questi diseredati quali fossero le cause del loro disagio, e cioè gli “stranieri privilegiati che vivono sulle nostre spalle”, in pratica tutte le comunità di estrazione europea e le minoranze religiose, gente che vive tra buoni affari e sporting club. La nazionalizzazione del Canale di Suez fu la risposta internazionale più emblematica di questa nuova fase. Internamente invece si modificò il quadro giuridico degli ebrei, ricchi o poveri che fossero. Una volta ancora emergeva come gli ebrei non potessero mai avere semplicemente gli stessi diritti degli altri cittadini egiziani; una lunga storia da dhimmis, cittadini di serie B, ma anche importanti parentesi di status di favore, con le Concessioni e i tribunali religiosi ebraici. Condizioni di privilegio che la Rivoluzione dei Generali non poteva più permettere, per virare verso una posizione autarchica-autoritaria, che ha i suoi influssi nefasti fino ad oggi.
Sembra che ci sia sempre un momento della storia nel quale l’ebreo, invece di essere tante cose, è riconosciuto, giudicato, e alla fine discriminato solo come “ebreo”. Agli ebrei egiziani questo successe nel 1956. A 60 anni di distanza, si tratta di fatti che rivivono nei racconti, nelle memorie, nei cibi (ultimo confine ereditario chiaramente tramandato). Purtroppo però, non si può dire che sia riuscita la trasmissione generazionale del grande patrimonio ebraico egiziano. È un esempio di un problema più generale, ben sintetizzato per esempio dal fatto che oggi in Israele solo il 20% dei sefarditi di seconda generazione parla la lingua araba. È un peccato, perché proprio l’esperienza millenaria delle comunità sefardite avrebbe molto da suggerire in questa fase di confronto e costruzione di una società multietnica.