Nella deriva della società attuale, l’ebraismo ci interroga sulle complesse dinamiche del presente

Opinioni

di Claudio Vercelli

[Storia e controstorie] Cerchiamo di porre alcuni punti fermi, tali proprio perché cercano di affrontare la vischiosa problematicità del presente che ci appartiene. Per parte nostra, infatti, ci sentiamo sempre più spesso smarriti. Per l’appunto, quei “punti fermi” concretamente sembrano nei fatti difettare.

Non solo per un naufragio ideologico, ossia per una sorta di débâcle del pensiero, bensì per l’incapacità ad oggi, di riuscire a pensare la realtà, che condividiamo, senza per ciò fare riferimento a schemi preconcetti. In sé, assai spesso, anacronistici.

Il nostro tempo, che si vorrebbe tale poiché oramai depurato dal bisogno di rifarsi a delle ideologie di riferimento, è invece esso stesso pregno di quella ideologia che si fonda sul dichiarare il fallimento di tutto ciò (così come di coloro) che non sia riassumibile nella sola egemonia di un esclusivo gruppo di potere. Quello, per capirci, che afferma spudoratamente il dominio dei suoi interessi. Fregandosene del resto dell’umanità. Andiamo quindi al dunque: il progressivo transito, in alcuni paesi a sviluppo avanzato, da democrazie sociali, costituzionali e liberali a forme ancora spurie e irrisolte di autocrazia, sulla scorta di modelli populisti che hanno da tempo raccolto – soprattutto nell’America Latina, in certe realtà dell’Africa, in parti del Sud-Est asiatico, come nella Russia di Putin – i loro antesignani, è un significativo suggello di questa deriva collettiva. Così l’assai bistrattata Ursula von der Leyen: «Non dobbiamo farci illusioni sulle minacce che la nostra democrazia deve affrontare. Siamo entrati in un’epoca di lotta tra democrazia e illiberalismo.

Vediamo la minaccia allarmante dei partiti estremisti che vogliono polarizzare le nostre società con la disinformazione». Credo che sia vero, a prescindere dal fatto stesso che a pronunciare tali parole, apertis verbis, sia la Presidente della Commissione Ue. Inutile, a tale riguardo, fare la conta dei danni che ci derivano dagli storici ritardi dell’Unione stessa. Non è infatti questo il punto sul quale soffermarci. Non almeno in questo caso anche se l’Europa, ad oggi, si trova dinanzi ad un transito storico da sé completamente impreparata.

La prospettiva che si dà, in molte nazioni – francamente – è quindi quella di un regresso ad una sorta di feudalesimo politico su base tecnologica. Una commistione, per capirci, tra ritorno delle signorie (e delle servitù), basate sulla distruzione dei diritti collettivi, sul liberticidio, sulla forza e la potenza di singole corporazioni che si riconoscono in un unico “capo”, quanto meno rispetto a specifiche porzioni di territorio, sulle quali esercitano il loro indiscusso e insindacabile potere. Come tali, quindi, preventivamente sottratte a qualsivoglia giudizio che non sia quello che si dà attraverso il ricorso alla forza. La loro medesima. Al pari di molto altro. La disintegrazione del diritto collettivo (prima ancora che dei diritti personali), quindi del principio della divisione dei poteri, della dinamica dialettica tra maggioranza e minoranze, sono parte integrante di questa potenziale deriva. Nella quale siamo tutto, consapevolmente o meno, volutamente oppure no, trasportati.

Al pari un fiume in piena, che travolge tutto e, soprattutto, tutti. Molti, a fronte di ciò, si attardano, compiaciuti, su visioni e analisi geopolitiche. Sono tali quelle che non considerano un presupposto fondamentale, ossia che il vincolo di cittadinanza universale (che trova nello Stato unitario la sua massima espressione) si sovrappone, storicamente, alle lealtà di gruppo e alle fedeltà claniche. Queste ultime, come tali, preesistenti al primo. Pertanto, assai più tenaci dei tentativi, storicamente molto faticosi se non addirittura fallaci, di dare una forma-Stato a comunità che, per più – e distinte – ragioni si sono confrontate, dal XIX secolo in poi, con gli effetti di una modernizzazione globalizzante.

Le altalenanti vicende del Mediterraneo arabo e musulmano sono specchio di tutto ciò. Ovvero, non solo di un’altrui “modernità” incompiuta (quella dell’Occidente, tale poiché anche e soprattutto coloniale) ma di un Oriente che ha sempre faticato a seguire il percorso Quello che chiamiamo con il nome di “Medio Oriente”, ad oggi, è quindi lo specchio fedele di una tale, irrisolta, come anche rassicurante trasformazione, laddove al disfacimento dell’universalismo democratico si accompagna il ritorno, in sé falsamente rassicurante, al particolarismo identitario. Quello che deriva dal riconoscersi in una sorta di tribù endogamica di riferimento. L’ebraismo, in tutto ciò, non ha nessuna diretta responsabilità.

Poiché non ha mai rigettato il principio universale di cittadinanza. Tuttavia, posto che il giudaismo medesimo non è mai esistito come una sorta di granitica unità – capace quindi, nel qual caso, di condizionare l’esistenza dei “non ebrei” – nella crisi del nostro presente viene invece presentato come tale. Ossia, come un burattinaio. Ovvero, un attore consapevole quindi a proprio beneficio esclusivo, delle degenerazioni in atto. Beninteso: il rigetto di tutto ciò non esenta in alcun modo dalla necessità di interrogarsi sulla natura delle medesime trasformazioni che accompagnano Israele. Proprio per questo, infatti, senza ricorrere a mere semplificazioni di circostanza. Sono questi pensieri – in sé – troppo pessimisti? Sarebbe preferibile credere di sì. Poiché si tratta, altrimenti, di una prospettiva per più aspetti angosciante. Ma il combinato disposto tra problemi esistenziali che si stanno manifestando, passo dopo passo (a partire da quello eco-ambientale) nell’ecumene mondiale, rischiando di travolgere intere comunità umane, il transito verso un capitalismo digitale e finanziario (fenomeno avviatosi già negli anni Settanta del secolo trascorso e, quindi, come tale, di lungo periodo) nonché lo sgretolamento delle istituzioni delle mediazione, a partire proprio da quelle della rappresentanza e della mediazione, sono indici di un indirizzo problematico che si prospetta dinanzi a noi.

Tutto ciò segna la conclusione di un lungo ciclo, che era nato sulle macerie e le ceneri del 1945, per arrivare, sia pure in forme diverse, a seconda dei singoli paesi, fino ad oggi. Non vale l’ingannevole richiamo, pronunciato nel 1989, rispetto alla “fine della storia”. Sappiamo, ad oggi, che così non è. Posto che la storia può esistere a prescindere dai suoi stessi protagonisti umani. L’ebraismo, a conti fatti, è anche un’interrogazione su questi nodi strategici. Ossia sul rapporto tra umano e artificiale; sul dettato che intercorre tra irrisolto presente e ipotetico futuro; sul legame tra annichilimento e speranza. Se ci si pone questi quesiti, in fondo, si rimane “umani”. Per sé stessi così come per il resto di ciò che consideriamo, ad oggi, come “umanità”. (La prima parte di questa riflessione è sul Bet Magazine di Luglio/Agosto 2025, pagina 43)