Il mare e la terra: le illusioni pericolose dei distruttori

Opinioni

di Claudio Vercelli

[Storia e controstorie]

Un po’ ovunque, tra le numerose manifestazioni che si susseguono in Europa e negli Stati Uniti (ma non in molti altri paesi, a partire da quelli arabi), si urla a pieni polmoni: «From the river to the sea, Palestine will be free». Il significato, lo si sarà inteso, è univoco: «dal fiume al mare, la Palestina sarà libera». Dal fiume Giordano (quindi a partire dal monte Hermon), linea di divisione con il Regno di Giordania, fino al Mediterraneo. Saltando a piè pari, si intende, lo Stato d’Israele. Nella sua parte settentrionale il rio separa infatti Israele dalle Alture del Golan; immediatamente più a sud scinde Israele dalla Giordania, poi ancora più a meridione, per un lungo tratto divide la Cisgiordania dalla Giordania. Nel tratto finale – invece – il Giordano torna a dividere il territorio israeliano da quello del Regno di Giordania. Fin qui vale la geografia politica. Bene ricordarla, a beneficio comune.

Torniamo invece alla cronaca. Dal 1967, dopo la guerra dei Sei giorni, il radicale mutamento di scenario che sconvolse l’intero mondo arabo, così come l’immediato affermarsi di un nazionalismo palestinese, da sé indipendente dallo stesso panarabismo, furono all’origine della nascita, e delle crescenti fortune, di quello slogan che lega il destino delle comunità arabo-palestinesi all’estinzione dello Stato degli ebrei. Qualcosa del tipo: i “palestinesi” (in questo caso il virgolettato è d’obbligo) possono avere un futuro solo se Israele sparisce dalla faccia della terra. Quanto meno nel suo presentarsi come Stato degli ebrei.

L’espressione “dal fiume al mare”, che dal 7 ottobre 2023 ha quindi ripreso vigore tra gli strenui oppositori d’Israele, rimanda inequivocabilmente all’idea di una sua materiale distruzione. Non basta nascondersi dietro principi umanitari. Quand’anche essi abbiano un fondamento rispetto al futuro destino delle popolazioni arabe che, da molto tempo, risiedono nei territori di Gaza e della Cisgiordania. La galassia filo-palestinese, infatti, è assai più convinta della necessità di distruggere qualcosa di esistente che non della possibilità di dare corpo e sostanza ad futuro Stato arabo-palestinese. Un qualcosa, come tale a sé stante, rispetto al quale, realisticamente, pochi invece nutrono eccessiva fiducia.

Ragioniamo quindi sopra questo articolato assunto, senza preclusioni ideologiche di sorta. Poiché, al dunque, quanto viene chiesto non è di creare qualcosa di ipotetico (lo “Stato di Palestina”) bensì di estinguere ciò che già esiste (lo Stato d’Israele). Non si tratta di un gioco di parole. Una tale istanza, intimamente contraddittoria ma, anche per questo, emotivamente appetibile, costituisce semmai il fuoco di quelle molteplici polemiche che – nei trascorsi decenni, per arrivare fino ai nostri giorni – hanno agitato le acque di ciò che, ancora ad oggi, definiamo stancamente come “conflitto israelo-palestinese”. Nei suoi infiniti cascami. Così come, a ben vedere, tutto ciò rimane al centro della contrapposizione storica tra la legittimità della sovranità ebraica, ridefinitasi dal 1948 in poi, e il restante mondo arabo, nelle sue turbolente trasformazioni, in parte a tutt’oggi in corso.

Quest’ultimo, infatti – solo per capirsi – non si è mai, per nulla identificato con la “questione palestinese”. Posto che essa è semmai una petizione che nasce sull’onda lunga dei movimenti che, dagli anni Sessanta, attraversano le società europee, riflettendosi quindi sul Mediterraneo meridionale ed orientale.

In un tale violento, angosciante, problematico riscontro – tuttavia – non c’è nulla di scontato. Infatti, molti sostenitori della “Palestina”, nel presente, idealizzano con ciò la soluzione miracolosa di qualsivoglia problema. A partire da quelli ad oggi, altrimenti sussistenti, e come tali in sé irrisolvibili, nel loro essere parte della lunghissima contrapposizione tra mondo occidentale e società arabo-musulmane.

Il gioco ideologico, a conti fatti, è il seguente: si tratta di ribadire la contrapposizione tra il male da cancellare (lo Stato degli ebrei, entità storicamente “abusiva”) e il bene da instaurare (la società indipendente degli arabo-palestinesi, destinati come tali a governare tutto il territorio storico della Palestina ottomana e poi britannica).

Anche per questa ragione, il rimando “dal fiume al mare” assume un carattere tanto esaustivo quanto totalitario. Poiché assicura, ai suoi sostenitori, la falsa convinzione di potersi sostituire a due secoli di storia, quelli che dalla seconda metà dell’Ottocento in poi hanno dato vita a comunità nazionali indipendenti. Non solo Israele ma, a conti fatti, l’intera configurazione dei paesi del Levante arabo. Quindi, anche il Libano, la Giordania, la Siria e il Sinài egiziano.

Si tratta, a ben vedere, di fantasie che si trasformano in strologate. Destinate tuttavia a dare corpo, ancora una volta, ai peggiori fantasmi. Del passato come del presente.