di Claudio Vercelli
[Storia e controstorie]
«Il patriottismo è l’estremo rifugio delle canaglie». Così si esprimeva Samuel Johnson, “senza dubbio il letterato più illustre nella storia inglese” (così Pat Rogers, nell’Oxford Dictionary of National Biography, per l’Oxford University Press, 2006), il 7 aprile 1775. Non era una dichiarazione di circostanza. Poiché Johnson esternava a viva voce contro l’uso manipolatorio che – dell’altrimenti nobile concetto del riconoscersi nell’appartenenza a una storia, quindi a una cultura come a delle tradizioni – veniva invece fatto, in quel caso, da John Stuart III, conte di Bute. Il quale, per la cronaca, ricoprì brevemente il ruolo di Primo ministro del Regno di Gran Bretagna dal 1762 al 1763, durante il tempo di quella che è conosciuta come la “guerra dei sette anni”. Facendosi valere per la ferina inconsistenza che gli è unanimemente attribuita dai suoi moltissimi critici. Le sue incongruità, condite da un’intollerabile ipocrisia, erano per Johnson un inaccettabile abuso, tale poiché destinato a puntellare non gli interessi collettivi (rispetto ai quali fingeva invece di rivolgersi) bensì quelli di una piccola consorteria di sodali. Questi ultimi, nel mentre, falsamente spacciati per una ragione che si finge comune: quella per cui si simula che la propria ricchezza e il potere accumulato, al pari di altrettante prerogative del tutto immeritate (ma proprio come tali gelosamente custodite) siano anche una sorta di patrimonio collettivo, nei confronti delle quali gli esclusi dovrebbero quindi sacrificare sé stessi. Quindi, la stessa vita. Soprattutto dinanzi alla rigenerazione continua del fantasma di un presunto “nemico alle porte”. Rispetto al quale tutti, da subito, parrebbero essere chiamati in causa, quando invece solo le classi subalterne vengono per ciò materialmente sacrificate.
Umberto Eco ne Il Cimitero di Praga chiosava: “chi non ha principi morali si avvolge di solito in una bandiera, e i bastardi si richiamano sempre alla purezza della loro razza. L’identità nazionale è l’ultima risorsa dei diseredati. Ora il senso dell’identità si fonda sull’odio, sull’odio per chi non è identico. Bisogna coltivare l’odio come passione civile. Il nemico è l’amico dei popoli. Ci vuole sempre qualcuno da odiare per sentirsi giustificati nella propria miseria. L’odio è la vera passione primordiale. È l’amore che è una situazione anomala”.
Johnson, per parte sua, non rivendicava solo il dovere dell’onestà etica e politica ma anche la necessità di tutelare appieno la coesione sociale. Ossia, quella condizione, in sé altrimenti assai mutevole, per la quale il bene supremo di una collettività riposa sempre, e comunque, nel buongoverno delle élite verso il “popolo”. Quando ciò non dovesse invece succedere, allora la catastrofe può essere dietro l’angolo. Cialtroneria, parassitismo, ciarlataneria come molto altro ancora, sono solo alcuni degli ingredienti di un saccheggio materiale, morale e civile ai danni delle collettività.
Ad oggi, un tale meccanismo continua ad operare, sia pure fatta la tara con il passato. A conti fatti, si tratta del prosieguo di una mistificazione che, quando si verifica, ha un solo nome, ossia quella del “potere” illegittimo: che in questo caso è tale in quanto costituisce una sovrapposizione e confusione indistinta tra destini individuali, coinvolgimento collettivo, assopimento delle coscienze per l’esclusivo tornaconto di piccoli gruppi. Posto che quest’ultimo gioca le carte di un assoluto inganno, laddove finge di tutelare gli interessi comuni quando, invece, è solo il presidio di meri interessi corporati.
Ad oggi, francamente, arranchiamo nel capire questa elementare verità. Queste ovvie riflessioni dovrebbero invece tornarci utili per capire, nonché decifrare appieno, almeno qualcosa di quanto sta succedendo nel nostro mondo. Non esistono “nazioni” imperiture (tali erano solo le ingannevoli potenze razziste del Novecento, a partire dalla Germania di Hitler), come neanche identità che si impongano per proprio esclusivo diritto di esistenza su quelle altrui. Prevaricando quindi queste ultime. Calpestare non è mai governare. Ed il rimando alle altrui incongruità, non può diventare la giustificazione per le proprie. Semmai si pone il richiamo al mutamento come vera radice del continuare ad essere umani. È cambiamento, quindi, ciò che permette l’adattarsi, di volta in volta, mantenendo in sé una radice che si vuole preservare come antica. Ma non anacronistica. Come neanche offensiva e preclusiva riguardo a quelle rivendicate da “altri”.
Il campo dell’inumano, infatti, riposa comodamente nella negazione di quest’ultimo riscontro. Sostituendolo semmai con la rivendicazione di una assoluta superiorità, un geloso suprematismo che congela la propria storia terrena, consegnandola alla mitologia di un’immodificabile ancestralità che – invece – dovrebbe essere parte della consapevolezza che mito (narrazione), rito (identificazione) e storia (tempo) non sono mai in contrapposizione, e sostituzione, bensì in rapporto di reciproca influenza. Tutto questo, a conti fatti, dovrebbe quindi costituire materia acquisita nella coscienza collettiva. Soprattutto dopo le incommensurabili tragedie del Novecento. Invece così non è. Si tratta di un desolante riscontro. Poiché nel vuoto della coscienza si accompagna l’ossessivo rinvio a dei simulacri di identità che sono solo maschere da indossare, di volta in volta, per non fare vedere il proprio autentico volto. Quello di un fragile essere umano. Che è tale, guarda caso, proprio perché non esibisce l’improbabile mascella del mastino, bensì i lineamenti dello schiavo che cerca di emancipare sé stesso così come i suoi tanti pari. In ciò, in fondo, riposa il senso dell’umano.