Una terra e due popoli. Sulla questione ebraico-araba

Libri

Una raccolta di scritti di Buber.

Di quella grande generazione di intellettuali ebrei attiva in Germania a partire dagli anni della Grande Guerra (Scholem, Rosenzweig, Benjamin, un po’ più tardi la Arendt e Bloch) Martin Buber fu certamente il più popolare e il più influente nel suo tempo, anche se oggi non ci appare forse il pensatore più originale e profondo del gruppo. La sua collocazione a metà strada fra linguaggio filosofico e religioso, la sua eloquenza, la sua passione, il suo contributo alla riscoperta del mondo chassidico ne fecero un personaggio rispettato e amato nel mondo ebraico come in quello cristiano: una popolarità che ancora è vastissima.

Proprio a partire dagli anni della guerra Buber sentì l’obbligo di partecipare al movimento sionista e alla discussione politica ebraica, cercando di svolgere il ruolo di coscienza politico-morale dell’ebraismo contemporaneo e guidando diversi gruppi – il più importante, a partire dagli anni Trenta fu l’Ichud – che si ponevano sì all’interno del progetto sionista, ma in forte tensione con la sua anima maggioritaria. Dei numerosi scritti prodotti da Buber in questi dibattiti Giuntina ha appena pubblicato una interessante antologia intitolata Una terra e due popoli – Sulla questione ebraico-araba (pp.372, € 18). Il filo centrale è infatti il tema, scottante oggi come novant’anni fa, del rapporto fra il movimento sionista, l’insediamento ebraico in Erez Israel e poi lo Stato di Israele, con gli arabi (che in questi scritti non sono mai chiamati palestinesi, visto che tale specificazione territoriale non si era ancora imposta in quegli anni). Il libro si apre con una lettera del 1918 che rifiuta l’idea di uno Stato ebraico “con cannoni, bandiere e onorificenze”, prosegue affermando posizioni di minoranza fortemente utopistiche e antipolitiche sulle discussioni dei trattati di pace, sull’immigrazione ebraica, sui pogrom ripetutamente scatenati dai palestinesi, sulla fondazione dello Stato, sulla sua politica nei confronti dei profughi arabi. L’ultimo scritto del 1965 discute la possibilità di una federazione di Stati che comprenda tutto il Medio Oriente.

È difficile naturalmente fare una sintesi di interventi per lo più occasionali e spesso motivati in maniera complessa. E però è interessante leggerli, per la personalità di Buber e per il fatto che egli viene spesso considerato il padre putativo delle posizioni attuali più critiche verso la politica israeliana.
L’idea di partenza di Buber è esattamente l’opposto della speranza di Ben Gurion che Israele diventasse “uno Stato normale”. Buber ritiene che solo salvaguardando la missione religiosa del popolo ebraico, ponendosi in continuità con le visioni profetiche, evitando “l’assimilazione collettiva” che deriverebbe da uno Stato “normale”, solo uscendo dalla logica della politica, il sionismo potesse non tradire l’identità ebraica. Non dunque uno Stato per dare agli ebrei una patria e neppure tanto per difenderli dalle persecuzioni (anche se questa preoccupazione ovviamente emerge a causa del nazismo), ma un luogo della giustizia e della verità, pacifico e integrato nel suo contesto geografico e sociale, organizzato secondo un socialismo decentrato e basato sull’agricoltura, non sulle città. In particolare un insediamento che crescesse solo lentamente, per non apparire aggressivo agli arabi, che non si affrettasse a costituirsi come Stato, che non puntasse a diventare maggioranza nel suo territorio e badasse a non inquietarein alcun modo i vicini arabi.

È un’utopia attraente, che pone però regolarmente Buber in contrasto col realismo politico del movimento sionista, non solo con l’ala destra di Jabotinski e dell’Irgun, ma anche col centro di Ben Gurion. Buber negli anni Venti si batte per non fare accordi con gli “imperialisti” inglesi, negli anni Trenta per bloccare l’immigrazione, negli Anni Quaranta contro il programma di Baltimora e la costituzione dello Stato, arriva nel ’48 a giustificare l’attacco degli eserciti arabi contro il neonato Stato di Israele, perché la sua fondazione andava considerata come un atto aggressivo. Negli anni Cinquanta, di fronte a chi gli chiedeva se tutte queste posizioni non fossero state smentite dal successo di Israele, Buber confermava di dissentire in nome dello “Spirito” e della “Verità” dal percorso che aveva costituito quello Stato “con cannoni, bandiere e onorificenze”, annunciando un futuro di conflitti col mondo arabo, che effettivamente è ancora nelle nostre preoccupazioni.

Il libro si può leggere utilmente come una cronaca appassionante del dibattito di quegli anni, visto da un angolo visuale molto inconsueto; come la prova che non è affatto vero che il sionismo ignorasse il problema palestinese prima dell’OLP; come il tormentoso interrogarsi su come “non commettere più ingiustizia del necessario” nel rientro nella terra promessa, come una testimonianza delle discussioni sul trattamento dei palestinesi che qualcuno pretende di rivelare oggi come novità scandalose.

Ma si deve anche considerare come la prova della grande difficoltà progettuale delle tendenze guidate da Buber, che voleva l’accordo con l’intero mondo arabo: perché in queste pagine vi sono molti ammonimenti, molte preoccupazioni, molti giusti richiami etici, ma non si trova mai un progetto alternativo politicamente plausibile. Buber cerca in ogni momento di frenare l’audacia, la corsa contro il tempo del progetto sionista; esorta a discutere di più con i vicini arabi (ma chi fra loro accetta di interloquire viene spesso ucciso per questo), ma non chiarisce come poter concludere questa discussione, al di là dello slogan della costruzione di uno Stato binazionale in cui nessuno potesse prevalere sull’altro. Quel che manca in ogni momento è un progetto politico concreto e percorribile, una valutazione realistica dei rapporti di forza, un giudizio non solo volontaristico sulle disponibilità del mondo arabo a un accordo vero.

È importante anche se difficile chiedersi oggi se fosse possibile, dall’inizio del conflitto per la terra di Israele, cioè almeno dall’inizio degli anni Venti, evitare questa guerra infinita. Buber appare persuaso che si possa trovare un accordo, ma non riesce a convincerci mai che ci fosse davvero una via alternativa per istallare col consenso arabo in Eretz Israel il popolo ebraico e non solo un piccolo gruppo di religiosi del dialogo. Ci sarebbe stata davvero la pace per un insediamento “senza cannoni e bandiere”, che non avesse praticato il realismo politico, l’autoriferimento economico e l’autotutela militare, ma solo la ricerca di una vita giusta e di una fraternità utopistica? Lo “Stato binazionale” a maggioranza araba che Buber appoggia a lungo come soluzione giusta, avrebbe evitato il conflitto o lo avrebbe semplicemente trasformato nell’ennesima ondata di pogrom? È lecito dubitarne – oggi più che mai, quando le stesse soluzioni binazionali vengono riproposte da alcuni come vie d’uscita da una guerra ormai secolare.

Una terra e due popoli – Sulla questione ebraico-araba, La Giuntina pp.372, € 18.