Meritocrazia: un valore ebraico

Libri

Una proposta rivoluzionaria.

Roger Abravanel, classe 1946, laurea in ingegneria al Politecnico di Milano a soli 21 anni e Mba all’Insead di Fontainebleu dove ha ricevuto il premio “Dean’s list” come uno dei migliori studenti del master in Business Administration, 
ha lavorato in McKinsey dal 1972 al 2006, fino a ricoprire il ruolo di senior director. Nato a Tripoli, guru della consulenza aziendale e conosciuto come “il signor McKinsey in Italia”, ha lavorato anche in Francia, Giappone, Messico, Israele. Abravanel fa parte dei Cda di Luxottica, Marazzi, Teva Pharma, Bnp-Bnl, Iit e del fondo Clessidra. È autore di saggi e articoli, tra i quali Privatizzare per liberalizzare (1993), I distretti tecnologici (2001), Le sfide della crescita delle imprese famigliari italiane (2006), Scelte coraggiose per sviluppare un’economia di servizi (2006).
Ha pubblicato Meritocrazia, un saggio che sta rapidamente scalando tutte le classifiche delle top ten editoriali; svela impietosamente i mali dell’Italia (il paese “più disuguale e più ingiusto del mondo occidentale”) ma con l’ottimismo e la determinazione che chi non si limita a definire un problema ma ne fornisce anche la soluzione. Valida anche per i problemi della Comunità di Milano.


Ingegner Abravanel, il suo libro è un best seller, ma penso ci si debba augurare diventi un long seller, perché le sue ricette sono difficili da digerire e metabolizzare in un paese immobile come l’Italia, in cui il lavoro culturale per cambiare le regole sarà lungo e complesso. Lei è comunque ottimista?

Sono ottimista e sono fortunato ad aver scritto questo libro in questo preciso momento. C’è tanto bisogno di uscire da questa situazione che in sole tre settimane il mio libro ha avuto un impatto enorme. Tre ministri mi hanno chiamato, in particolare il ministro della Pubblica istruzione Gelmini che ha detto, al convegno della Fondazione Bellisario il 26 giugno, di voler realizzare tutto quello che ho scritto sulla scuola.
La meritocrazia è un concetto semplice: i migliori salgono a prescindere dalla famiglia d’origine, dal sesso, dalla religione; dalle condizioni di partenza insomma. In Italia siamo pessimi in questo. Quando non si hanno in posizione di vertice le persone migliori, non si va da nessuna parte.
In America hanno mille problemi, ma possono salire, hanno mobilità sociale, basti pensare a Obama, la cui nonna vive ancora in Kenia in una capanna.
L’Italia è la società più disugale e più ingiusta del mondo occidentale, perché ha lo stesso gap tra ricchi e poveri che ha l’America, ma le classi sono immobili, non ci sono pari opportunità, non c’è meritocrazia. Questo concetto è relativamente recente, si è imposto nel passaggio dall’economia agricola a quella industriale e poi postindustriale, quando ha avuto più importanza in capitale umano, i cervelli. In Italia, a causa della debolezza dello Stato, la famiglia ha mantenuto un ruolo determinante nelle scelte e nel futuro dei giovani, anche all’interno delle Aziende. La famiglia si fida di se stessa e quindi produce nepotismo.

La parnassà, cioè il sostentamento, il reddito che ogni ebreo si merita nel corso dell’anno e che secondo la tradizione ebraica viene deciso dall’Alto nel giorno di Rosh Hashanà, è un segno della benevolenza divina. Concetto che sarà poi ripreso nell’etica protestante, come lei scrive nel suo libro, e non in quella cattolica, e che marca quindi la differenza tra il mondo anglosassone e quello italiano. Possiamo quindi affermare che la meritocrazia è un concetto ebraico?

È vero che l’etica protestante ha avuto un ruolo, ma anche la Chiesa è meritocratica nella sua gerarchia, e d’altre parte in Inghilterra è stato il Labour Party a promuovere la meritocrazia. Ma è vero che la meritocrazia è nel DNA ebraico anche perché gli ebrei, non potendo avere proprietà, hanno sempre fatto leva sul capitale umano. Non potendo lasciare ai loro figli terre e immobili, hanno lasciato un sistema di valori, l’educazione, l’importanza dello studio. Oggi un padre ebreo può dare al proprio figlio l’eccellenza dell’educazione.

Un capitolo del suo libro è dedicato a Israele e alla selezione d’eccellenza nell’esercito che ha ripercussioni anche nella vita civile con la creazione di nuove imprese ad alta tecnologia.

Sì. L’ambasciatore di Israele sta diffondendo il mio libro perché è un’esigenza far conoscere questo aspetto del Paese e non solo le notizie di guerra. L’altra faccia di Israele, quella dell’eccellenza tecnologica, educativa, della solidarietà, in tanti campi, deve essere conosciuta. Nel mio capitolo sulle “fabbriche di eccellenza”, cito le università americane della Ivy League, Singapore e il sistema di selezione e preparazione della élite dell’esercito israeliano, dove i migliori sono scelti attraverso test durissimi e poi preparati nelle migliori università e con un addestramento psicofisico severo.

Due anni fa, in una intervista al Bollettino, lei propose di applicare criteri meritocratici per risolvere i problemi della Comunità di Milano. Che cosa pensa si debba fare?

Prima di tutto la Scuola ebraica: dovrebbe diventare la migliore di Milano, i ragazzi dovrebbero essere sottoposti ai test PISA, che dimostrano il livello di capacità e preparazione in modo obiettivo, e lavorare per renderli eccellenti.
Poi i genitori dovrebbero assicurarsi che il proprio figlio conosca perfettamente l’ebraico e l’inglese, perché le Università israeliane sono migliori di quelle italiane e l’opportunità di studiare, per esempio, se si riesce ad essere ammessi, all’Università di Tel Aviv è preziosa.
Nella gestione della Comunità, il problema è grave. Siamo omologati al sistema amministrativo italiano,
quindi la selezione della leadership della Comunità avviene con gli stessi approcci poco meritocratici, dato che il sistema elettorale per liste non permette di nominare chi contribuisce veramente alla Comunità e ha le capacità adeguate.
Per avere una vera leadership eccellente bisognerebbe eliminare il sistema elettorale e passare all’auto cooptazione di una leadership meritocratica composta dal vertice delle varie istituzioni, come in tutte le comunità del mondo: il capo della Fondazione per la Scuola, il capo della Commissione per la Casa di Riposo, il capo del Culto, della Cultura e così via, persone eccellenti e motivate da vero spirito di servizio, che sappiano circondarsi dei giovani migliori per la soluzione dei problemi pratici della Scuola, dell’Assistenza, della Casa di Riposo.
Poi non dovrebbero esserci “tasse”, ma contributi volontari da destinare a ciò che si ritiene più utile, con una parte magari da devolvere al fondo comune. Ma sarà molto difficile che questa proposta venga accolta.

E il suo ottimismo, allora?

Sono ottimista per quanto riguarda l’Italia, perché c’è una forte pressione sociale al cambiamento. Gli italiani non ne possono più. Finché erano considerati un po’ disordinati ma creativi, dinamici, erano soddisfatti, ma ora che tutti i giornali del mondo ci descrivono come “vecchi, sfiduciati e immobili”, sta venendo fuori l’orgoglio e quindi la voglia di cambiare le cose.
Sono ottimista per Israele che, Ahmadinejad permettendo, ha un grande futuro.

Ma per la Comunità di Milano non sono ottimista, perché è piccola e isolata, la gente ha un reddito medio-alto e quindi non c’è quel senso di urgenza che può portare a un vero cambiamento.