LETTURE (QUASI) EBRAICHE

Libri

Elie Wiesel, Le storie dei saggi, trad. it. Garzanti, Milano 2006, pp.395, €19,50

André Neher, Hanno ritrovato la loro anima, Marietti, Genova 2006, pp.206, € 22

Tutti conosciamo Elie Wiesel come grande testimone della Shoà, grande scrittore impegnato a spiegare instancabilmente le forme della persecuzione antisemita e a battersi per i diritti umani, Premio Nobel per la Pace. O il Wiesel che ricorda la civiltà ebraica orientale, il mondo dello stehtl e la paradossale saggezza del chassidismo. Ma vi è anche un Wiesel pensatore, che usa la sua educazione talmudica tradizionale per affrontare problemi legati al testo della Torah e dunque all’essenza dell’ebraismo.
E’ il caso di Le storie dei saggi, libro facile e di gradevolissima lettura, ma ricco di pensiero, tratto da una serie di lezioni universitarie americane. Vi è una parte di “storie” vere e proprie, in cui si ricostruiscono personalità e vicende di maestri talmudici come Rabbi Tarfon, Rabbi Yehoshua ben Levi, o il confronto fra Abbaye e Rava,; e poi si trova una commossa rievocazione di Rashi e anche qualche vicenda chassidica, come l’aspro e un po’ inspiegabile conflitto che contrappose nell’Ottocento le comunità di Zanz e Sedigur.
Ma il centro del libro è costituito da una serie di letture bibliche, in cui personaggi ed episodi della Torah vengono sottoposti a un esame essenzialmente etico, in cui Wiesel si chiede se siamo in grado oggi – se lui è in grado – di accettare il loro comportamento, sul piano psicologico e morale. Anche se Wiesel usa largamente i commenti canonici, non è questa la domanda caratteristica dell’ermeneutica ebraica (che si chiede piuttosto “che cosa ci insegna il passo che leggiamo?”) e tanto meno la lettura critica della tradizione letteraria occidentale, che certamente non si interroga se i suoi personaggi abbiano fatto bene o male a comportarsi come hanno fatto, se Ulisse non potesse fare a meno di accecare Polifemo o Renzo a partecipare alla sommossa di Milano. Wiesel certo non pensa a Lot o a Aronne come personaggi finzionali, secondo l’atteggiamento oggi di moda di una critica letteraria della Bibbia (si pensi a Harold Bloom) e però non li tratta come semplici figure storiche, le cui azioni possono essere accertate ma non discusse oltre a un certo limite, dato che “la storia non si fa con i se e con i ma”, come dice un vecchio adagio.
L’analisi di Wiesel è invece piena di se e di ma, essenzialmente morali: spesso egli prende una vicenda molto nota ma non del tutto chiara, soprattutto dal punto di vista della responsabilità dei danni che vi sono narrati, come la cacciata di Agar e di Ismaele dalla casa di Abramo, l’incenerimento dei figli di Aronne, colpevoli di aver portato un “fuoco estraneo” davanti ad Hashem, la morte di Miriam; e si interroga sulla responsabilità del fallimento, senza escludere nessuno dal campo della sua indagine, né gli eroi positivi del testo come Abramo e nemmeno il comportamento divino. Alla fine delle sue inchieste Wiesel non emette sentenze e spesso si riconcilia almeno in parte con l’interpretazione tradizionale. Ma il suo modo serrato ed esigente di discutere col testo ne rivela aspetti nuovi e soprattutto dà da pensare, ci sollecita a ritornare instancabilmente sulla Torah senza credere che il suo senso sia fissato una volta per tutte e vada semplicemente riprodotto. Il protagonista di questo libro è insomma il commento, la sua inesauribile capacità di rinnovarsi e di ripensare le storie da nuovi angoli prospettici: un atteggiamento che costituisce il cuore di tutto il pensiero ebraico.

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Nella seconda metà del Novecento si è sviluppato un Francia un importante movimento di pensiero ebraico, una vera e propria rinascita. Insieme a Lévinas, a Churaki, ad Askenazi, A Trigano, a Ouaknine, allo stesso Wiesel, ne ha parte eminente André Neher. Professore all’Università di Strasburgo, salito in Israele nel 1977, morto nel 1988, è autore di una serie di libri per loo più tradotto in italiano, fra cui sono molto noti L’essenza del profetismo (ora ripubblicato dall’editore Lampi di stampa, 1999), L’esilio della parola (Marietti), Faust e il golem (Giuntina). Ora Marietti ha pubblicato un suo libro su alcuni esemplari “percorsi di teshuvah” fra grandi artisti e intellettuali dell’Europa moderna e contemporanea, intitolato Hanno ritrovato la loro anima. Si tratta di alcune personalitrà notissime, come il musicista Arnold Schoenberg, il poeta e scrittore Heinrich Heine, i filosofi Ernst Bloch e Franz Rosenzweig e altri meno noti, almeno nel mondo culturale italiano, come Bernard Lazare, Karl Wolfskehl, Benjamin Fondane, Aharon Kabak. La loro storia comune è quella di un’assimilazione più o meno esplicita alla cultura della modernità europea, ed eventualmente al cristianesimo, seguita da un ritorno alle origini ebraiche. E’ questo ritorno che interessa Neher, il quale lo considera un momento autentico di teshuvà, utilizzando il significato letterale del termine (“ritorno”) in sovrapposizione a quello tecnico religioso (che si usa rendere con “pentimento”). Neher ne trova il paradigma nella Torah con la figura del giovane Moshé, allevato da figlio del faraone, che a un certo punto “si risveglia” e come racconta Es. 2,11 “quando fu cresciuto si recò dai fratelli” e si accorse della loro oppressione.
Il famoso aneddoto di Franz Rosenzweig, che alla vigilia di una progettata e molto discussa conversione al cristianesimo decise di passare un ultimo Yom Kippur in sinagoga e ne uscì non solo determinato a rinunciare alla convinzione, ma ricco dell’energia spirituale che ne fece una presenza decisiva per l’ebraismo tedesco prima della Shoà, è un esempio caratteristico di questa “svolta” tanto identitaria quanto religiosa verso la casa ebraica. Altrettanto commovente è la storia di Scheomberg, che si era effettivamente convertito al cristianesimo, ma volle a un certo punto ritrattare la sua conversione e lo fa con un atto notarile davanti al rabbino, per poi progettare alla fine della vita la sua alyà in Israele. L’identificazione con il popolo ebraico e l’amore per la sua cultura, ci insegna Neher, non sono aspetti esterni, politici, rispetto a un pentimento interno, puramente spirituale; nel caso dell’assimilazione ne sono la premessa necessaria.