Una fiaba macchiata dalla Storia

Arte

di Ruth Migliara

Margarethe Agnes von Staufen zu Berg (Museo Nazionale della Fotografia F.lli Alinari FIRENZE - foto di corte 1851 ca.)

Questa è la storia del CNI, il Corpo della Nobiltà Italiana, un’associazione privata, tuttora attiva e presente sul territorio italiano, che fa riferimento nel suo statuto a un Regio Decreto del 1943. E che, nei suoi contenuti, applica le leggi razziali “fascistissime”. Ma è anche la vicenda dell’ultimo dei marchesi d’Angrogne, Enrico Manfredi che, oltre ad essere di nobili natali, è anche ebreo per metà, per parte paterna, la stessa metà insignita dei titoli nobiliari. Infine, bizzarramente, è anche la mia storia, di me che qui scrivo: perché, in una stupefacente tessitura dei piani divini o concorso di circostanze, che dir si voglia, ho ritrovato i genitori di mio nonno e, con lui, anche una storia antica e una famiglia di cui fare parte.

«Spero si comprenda che, nonostante i tentativi di cancellarci poiché tedeschi, poiché leali, si sappia pienamente ciò che rappresentiamo nei nomi e nei titoli». Così scrive a Vienna nel 1917, quasi profeticamente, Jean Amédée Manfroy de Luserne d’Angrogne von Staufen, in una lettera rivolta ai figli, in appendice al diario che ripercorre tutta la sua vita. La storia inizia quasi come una fiaba: Jean è figlio del Marchese d’Angrogne, Alessandro Felice, e di una nobildonna ebrea, Margarethe Agnes von Staufen zu Berg. I due si erano conosciuti nel 1850 a Torino, alla corte del Duca di Genova. La fanciulla era giunta giovanissima dalla Prussia come dama della Principessa di Sassonia, divenuta Duchessa di Genova in seguito alle nozze con il Duca Ferdinando di Savoia. Siamo in un momento storico in cui gli ebrei prussiani vivono perfettamente integrati nel sistema e sono anzi, come nel caso dei von Staufen, parte degli Junker, l’antica oligarchia dominante di origine feudale.

Margarethe che, per quanto ebrea, era talmente bella da suscitare le attenzioni del Duca e del Re, si innamorò del giovane Alessandro, uno tra i migliori partiti della corte. I due si unirono in nozze segrete e si frequentarono per due anni finché lei fu in attesa di un figlio nel 1853. Viste le infondate maldicenze di corte che insinuavano una possibile paternità del Duca e probabilmente l’origine ebraica della giovane, ai due fu concesso di sposarsi ufficialmente nonostante le diverse confessioni religiose, ma solo dopo aver ripiegato in Germania, a Kassel. Il figlio Jean nacque dunque in Prussia e venne ivi riconosciuto come legittimo dal padre Alessandro, il marchese d’Angrogne, divenendone in tal modo erede di sostanze e titoli. Tuttavia, Margarethe morì poco dopo il parto. Il giovane vedovo contrasse allora, su pressione paterna e per interesse delle reciproche famiglie, un nuovo matrimonio con la nobile Trivulzio Pallavicino. La saga ebraico-mitteleuropea-aristocratica prosegue così con un racconto che si fa via via rocambolesco e avventuroso.

Fu per via della volontà della capricciosa consorte Trivulzio, che il padre relegò in Germania il piccolo Jean Amédée, che venne così adottato e cresciuto nella casa degli zii materni di cui assunse perciò il cognome von Staufen. Fino ad oggi: 150 anni dopo, l’ultimo discendente del ramo principale dei Marchesi d’Angrogne, Bruno Manfredi de Luserne von Staufen, decide di aggiornare la sua iscrizione alle liste delle famiglie nobiliari italiane, essendo nate le due nipotine. Bruno ha già fatto la medesima cosa in Gran Bretagna e in Spagna qualche anno prima, ottenendo ufficiale e legittimo riconoscimento dei suoi titoli nobiliari, rispettivamente nel Burkès Armorial Register e ricevendo certificazione da parte del Re di Spagna. In Italia, tuttavia, la Costituzione del 1948 sancì il non riconoscimento legale dei titoli nobiliari. Perciò di fatto cessarono di esistere il Libro d’Oro, -elenco ufficiale che dal 1896 catalogava le famiglie che avevano un titolo nobiliare per decreto reale o ministeriale, e la consulta araldica, collegio statale che di tale registro si occupava-. Ed è così che Bruno Manfredi, ignaro di tutte queste premesse, si imbattè, come chiunque si dedichi a una veloce ricerca in rete, nel Libro d’Oro della nobiltà Italiana, nome analogo a quello del libro precedente, cessato nel 1948.

La presentazione dell’opera, tutt’ora presente sul web, spiega appunto come il registro, nato nel 1910, “riunisca le famiglie che erano elencate nel Libro d’Oro della Consulta Araldica del Regno d’Italia”, ponendosi dunque come logica continuazione del medesimo.

Si tratta invece di una pubblicazione privata, edita con periodicità irregolare, che non va confusa con l’omonimo registro dello Stato Italiano, non più attivo dal ‘48 e conservato nell’archivio Centrale di Roma. Quando Bruno chiede la registrazione della sua famiglia sul Libro d’Oro, pensando che di quello ufficiale si tratti, gli viene recapitata una lettera in cui si dice di inoltrare richiesta al CNI, il Corpo Nobiliare Italiano.

Il CNI è un’associazione privata, assolutamente non riconosciuta dalla Repubblica Italiana e che, non potendo attribuire alcun valore legale ai titoli nobiliari, non svolge nessun ruolo ufficiale. Il Corpo della Nobiltà Italiana si autodefinisce sul suo sito come “un gruppo di gentiluomini italiani… riunitosi a Roma il 19 dicembre 1951” e che “concertò di procedere alla costituzione di un ente privato che avesse per fine l’accertamento dei diritti storici dei nobili italiani e la loro difesa, nei limiti consentiti dalle norme vigenti”.

Inizia così il lungo calvario dei Marchesi d’Angrogne, Bruno e suo figlio Enrico. Per due anni, dal 2004, Bruno invia comunicazioni al CNI senza mai avere risposta, pur allegando importanti documenti a testimonianza della storia di famiglia. Nel frattempo, la famiglia Manfredi fa ricerche sull’associazione e scopre che di ente privato si tratta le cui certificazioni non hanno valore legale alcuno.

Sfogliandone inoltre lo statuto, tutt’ora presente in rete, rimangono colpiti da un articolo in particolare che dichiara che: “il CNI…si attiene nei propri provvedimenti, determinazioni, pronuncie e procedure…all’Ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano (approvato con Regio Decreto 7 giugno 1943 n.651) con esclusione di quanto riferentesi alla Regia Prerogativa”. Ciò significa che, fatta esclusione per i poteri riferiti al Re nel primo articolo, il decreto risulti tutt’ora in auge per l’associazione in tutte le sue restanti parti. Non solo perciò nell’articolo 23 si riconoscono ancora i titoli voluti dal Duce, mediante decreto, in qualità di Capo dello Stato. Ma l’articolo 33 fa esplicitamente “riferimento alle ‘leggi speciali’, dette anche fascistissime, e alle Leggi sulla Razza e sulla ‘nullità’ di un matrimonio con un non ‘ariano” .

Nello stesso 2006, i Manfredi scoprono anche l’esistenza di una edizione coeva di un “Annuario della Nobiltà Italiana” in cui l’editore Andrea Borella, come dichiarato in prefazione, restituisce negli elenchi le famiglie nobili ebraiche, di cui, nelle varie edizioni del suddetto Libro d’Oro, non era mai fatta menzione.

Bruno ed Enrico Manfredi, prima ignari dei fatti, inviano quindi indignati una comunicazione al CNI lamentando questi fatti incresciosi. Vista inoltre la non ufficialità dell’associazione che è privata e non riconosciuta dalla Repubblica Italiana, chiedono la restituzione di tutti i documenti inviati in precedenza.

E qui, direte voi, inizia il danno, oltre alla beffa.

Nel 2007 il CNI fa esposto presso la Procura Generale della Repubblica, denunciando Enrico Manfredi e i suoi familiari per aver falsificato i documenti che testimonierebbero la loro appartenenza al casato dei Luserna d’Angrogne. Un reato grave, passibile di 12 anni di reclusione e, per il quale, la famiglia Manfredi si vede sottoposta a perquisizioni da parte delle autorità e ludibrio pubblico sulla stampa.

Nell’esposto, il CNI dichiara inoltre che i Luserna d’Angrogne sono estinti da tempo, sostenendo che sia fatto noto e accertato che Alessandro Felice Manfredi si sposò una sola volta con la Pallavicino e mai con la citata Margarethe Von Staufen.

Certo, in base alle leggi fascistissime, essendo Margarethe ebrea, quel matrimonio non sarebbe valido e tutti i figli che ne sarebbero nati, illegittimi.

E così viene a mancare quell’anello di congiunzione costituito dal nonno di Bruno Manfredi, Jean Amedee, che, in quanto figlio di Alessandro e Margarethe è un marchese di Luserna e con lui tutti i suoi figli.

Il matrimonio tra i due, oltre alla nascita di questo figlio, sono testimoniati da atti ufficiali, oltre che dai diari dello stesso. E questi nel corso del processo vengono via via scoperti e presentati da Enrico e i suoi legali.

Il danno è già fatto, il processo è in corso -con tutte le ingenti spese del caso- e Bruno nel frattempo è mancato di crepacuore, probabilmente per l’angoscia e il senso di beffa. La storia in effetti è clamorosa, il torto conclamato, i risvolti al limite dell’iniquo. La sentenza finale è tra poco, fissata per il 31 ottobre di quest’anno, il 2012. Che dire quindi di un privato cittadino che vede messa in dubbio la propria identità e storia?, e questo in nome di un’associazione che attinge alle Leggi razziali fasciste e verso cui non risulterebbe ad oggi preso alcun provvedimento?

Resta a questo punto da raccontare, per dovere di cronaca, il lieto fine e la piega personale che questa vicenda ha preso per me che scrivo, un esito del tutto inaspettato quando accettai di scrivere questo articolo per il Bollettino. Quando ho iniziato a raccogliere informazioni e a scrivere del Caso Luserna, per me si trattava di un’interessante vicenda di gente a me del tutto estranea e sconosciuta.

Dopo qualche settimana dall’inizio delle ricerche -e dei miei contatti con Enrico Manfredi-, abbiamo scoperto che il figlio dell’ebrea Margarethe, Jean Amedee, ebbe poi due mogli, la prima Maria Boffa da cui nacque il ramo Manfredi e la seconda, un’ebrea prussiana, Josephine Mitzcom Migliara, che tradusse successivamente il suo nome semplicemente in Migliara, una volta giunta in America. Inizialmente pensammo a un singolare scherzo del destino e a un’omonimia, ma compiendo approfondite ricerche tra i documenti dell’anagrafe di Washington, scoprimmo che quella Mitzcom-Migliara era proprio la madre di mio nonno Mario, che aveva dato il suo cognome ai figli poiché inizialmente nati illegittimi, al di fuori del matrimonio. Il cognome Migliara venne poi mantenuto dopo le nozze e il conseguente riconoscimento dei figli, i quali aggiunsero i titoli Luserna von Staufen, tuttora presenti nei documenti anagrafici americani.

Potete dunque ben capire come non solo i Luserna non si siano mai estinti, ma come ve ne siano di nuovi, sopravvissuti alla Shoah, che si sono ritrovati per un caso del destino: due cugini, ignari e sconosciuti, che si sono reincontrati e hanno scoperto le loro comuni origini, grazie a un articolo casualmente commissionato a me dal Bollettino.