
Dalla biochimica al tessuto ingegnerizzato, dalla stupefacente ricerca sulla rigenerazione del midollo spinale alla chirurgia mininvasiva e alla frontiera delle cure metaboliche, Israele si conferma una fucina di innovazione. Sono conquiste nate in tempi dolorosi e estremamente difficili, ma con un potenziale che guarda oltre i confini, per dare speranza e cambiare la vita di milioni di persone in tutto il mondo
Cara lettrice, caro lettore,
sembra incredibile che a distanza di 70 anni torni attuale il titolo di un libro da tempo demodè, pubblicato nel 1954, La distruzione della ragione del filosofo-critico letterario ungherese Gyorgy Lukacs. Vissuto in piena guerra fredda, Lukacs alludeva a un pensiero vittima delle ideologie, all’irrazionalismo da cui era stata travolta l’Europa della prima metà del XX secolo.
A dare ascolto a odierni dibattiti tv, titoli di giornale, risoluzioni politiche, manifestazioni di piazza, sembrerebbe di assistere a qualcosa di analogo, a quella stessa “distruzione della ragione” individuata dagli storici dopo il 1945 mentre si ergevano sgomenti sui disastri dell’hitlerismo in Europa: un rapido processo di disgregazione della coscienza che, in parte, sembra somigliare a ciò che scorre adesso sotto i nostri occhi.
Considerato per tre decenni un maitre-a-penser, Gyorgy Lukacs aveva radicalmente torto su molte questioni, le sue idee sono concettualmente superate da tempo (soprattutto l’idea che la dialettica del reale evolva sempre in senso migliore/superiore, cosa che sovente nella storia è risultata drammaticamente falsa visti i dietrofront, i colpi di coda, i passi indietro a cui le vicende umane sono sottoposte in termini di diritti e civiltà, piegate da eventi che ne distruggono le conquiste). Tuttavia, seppur demodè (un testo che “non possiamo prendere sul serio”, diceva Susan Sontag), Lukacs aveva coniato un’espressione formidabile parlando di quel processo distruttivo della ragione che portò all’elezione di Hitler.
Distruzione della ragione ma anche “distruzione del tempo”, immersi come siamo nella velocità isterica dettata dal ritmo dei social media, come ha sottolineato recentemente il giornalista-saggista Maurizio Molinari a Milano nel corso della GECE (vedi cronaca a pag. 20). È la nostra dimensione del tempo diventata impaziente e nevrotica che rende impossibile l’esercizio della riflessione e il lento sedimentarsi di un pensiero dialogante e ragionato tra le persone. Una “distruzione del tempo” che riduce ogni cosa a bianco e nero, a buono o cattivo, che banalizza polarizzando le opinioni: ed eccoci sepolti da un diluvio di notifiche, esternazioni, opinioni whatsapp, rannicchiati dietro lo schermo degli smartphone e ridotti a vivere un’emotività senza museruola generata dai Reel di Instagram, Tik Tok o dai post di Facebook. Una “distruzione del tempo” che uccide la dimensione della lettura (per sua natura lenta) e che rattrappisce ogni forma di scambio, generando così un pensiero impaziente, violento, intollerante, esposto alle forme di linciaggio mediatico a cui assistiamo oggi.
Un degrado comunicativo che è sotto i nostri occhi, in radio, tv, social media. Ha ben ragione lo scrittore israeliano Roy Chen (Il grande frastuono, Giuntina), quando tira in ballo la cacofonia, l’implacabile rumore in cui sono immerse le nostre vite: un brusio che domina le giornate, ore trascorse tuffati dentro lo schermo del telefonino, frastornati da un’attualità difficile da decodificare, una forte sensazione di caos, con nessuno disposto a mettersi in gioco e tutti a ritenere di aver ragione ed essere dalla parte giusta della Storia. Come stupirsi allora di questo clima da scontro frontale, del riaffacciarsi di una cultura dell’odio vissuto come una passione positiva, sommersi da un caos informativo in cui proliferano narrazioni inventate di sana pianta? Un parossismo antigiudaico, “un piacere dell’odio” come un’antica voluttà ritrovata, un piacere dentro cui rotolarsi e di cui inebriarsi (solo pochi esempi italiani, tra i tanti: lo hate speech di Enzo Iacchetti, di Alessandro di Battista, di Francesca Albanese…).
Una forma di libidine, un perverso compiacimento nel voler finalmente sbattere in faccia agli ebrei l’imputazione di fare agli altri ciò che è stato fatto a loro, e che tradisce un antigiudaismo che non aspettava che un pretesto per poter riesplodere (ieri deicidio, oggi genocidio). Il passato che non passa? No, piuttosto un nuovo antisemitismo democratico, un razzismo selettivo che cannibalizzando la memoria di Auschwitz la usa contro gli ebrei. E pareggia i conti (e i sensi di colpa) trasformando le vittime in carnefici. La distruzione della ragione, appunto, che andrà in scena il prossimo giorno della memoria, il 27 gennaio.
Fiona Diwan



