di Nina Deutsch
L’ultimo attacco del Presidente USA contro il nuovo volto della sinistra americana, tra antisionismo, BDS e lo spettro di una New York guidata da un socialista radicale. (Foto: Facebook)
C’è un nome che nelle ultime settimane ha mandato in fibrillazione il dibattito politico americano, spaccato il Partito Democratico e fatto infuriare Donald Trump: Zohran Kwame Mamdani. Trentatré anni, deputato dell’Assemblea di New York, eletto ad Astoria (Queens), figlio della nota regista Mira Nair e del politologo Mahmood Mamdani, è considerato una delle figure emergenti della nuova sinistra americana.
Dopo aver vinto le primarie democratiche per la carica di sindaco di New York – battendo l’ex governatore Andrew Cuomo – Mamdani è diventato un caso politico nazionale. E anche internazionale, dopo la sua dichiarazione choc: «Netanyahu dovrebbe essere arrestato se mette piede a New York». Il riferimento è al mandato della Corte Penale Internazionale che accusa il premier israeliano di crimini di guerra a Gaza. Una frase che ha fatto esplodere la polemica.
E Trump perde le staffe
La risposta del presidente degli Stati Uniti non si è fatta attendere. Ieri, durante una conferenza stampa accanto al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, Trump ha sferrato un attacco diretto, personale e velenoso a Mamdani, definendolo un «comunista» e accusandolo di aver detto «cose orribili sugli ebrei». Poi, rivolgendosi a Netanyahu, ha assicurato: «Lo farò uscire».
Netanyahu ha liquidato l’intera faccenda come «sciocca», ma Trump ha rincarato la dose con una dichiarazione registrata alla Casa Bianca e rilanciata dai media.
«Secondo me, quest’uomo non è molto capace, a parte il fatto che sa dire una buona dose di “stronzate”. Se un comunista viene eletto a governare New York, non potrà mai più essere la stessa cosa».
Dietro l’attacco, c’è molto più di una semplice polemica retorica. Trump ha minacciato pubblicamente l’arresto di Mamdani qualora, da sindaco, dovesse davvero impedire l’operato dell’ICE (l’agenzia per l’immigrazione) a New York, come il deputato ha promesso di fare.
Un rapper, un attivista, un rivoluzionario
Chi sia davvero questo giovane politico capace di scatenare le ire del presidente e attirare il plauso della sinistra radicale è oggetto di continuo dibattito e polemiche.
Zohran Mamdani è nato a Kampala, in Uganda, cresciuto tra India e Stati Uniti, e ha studiato negli ambienti liberal della East Coast. Prima della politica, si è esibito come rapper con il nome Mr. Cardamom. In una delle sue canzoni, ha dichiarato il suo “amore” per la Holy Land Foundation, una ONG connessa a Hamas. Durante gli studi in Maine, ha fondato una sezione di Students for Justice in Palestine, rete studentesca oggi nota per aver innescato le ondate di proteste universitarie anti-israeliane.
Ma è nella sua attività da deputato che Mamdani ha realmente lasciato il segno: nel 2024 ha presentato la legge “Not On Our Dime!”, destinata a impedire alle ONG registrate a New York di inviare fondi a organizzazioni israeliane nei territori occupati. Ha definito Israele uno «stato di apartheid», ha accusato il governo di «genocidio» a Gaza e sostiene attivamente il controverso movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni).
Il volto nuovo dei Democratic Socialists of America
Mamdani è anche uno dei nomi più visibili all’interno dei Democratic Socialists of America (DSA), organizzazione che ha virato a sinistra dopo la vittoria di Trump nel 2016. Se un tempo era una fucina socialdemocratica frequentata da intellettuali ebrei come Michael Walzer, oggi la DSA è diventata un catalizzatore di ideologie radicali. Ha rotto con la NATO, ha elogiato Cuba e Venezuela, e ha fatto del rifiuto dell’esistenza di Israele una delle sue bandiere.
Secondo un articolo del giornale tedesco Jüdische Allgemeine, Mamdani incarna una frattura generazionale netta. Da un lato, gli ebrei più anziani, che vedono in Israele una garanzia di sopravvivenza; dall’altro, i giovani progressisti – inclusi molti ebrei – che lo percepiscono come uno stato coloniale e razzista.
Una città divisa, un’elezione che può cambiare tutto
La vittoria di Mamdani alle primarie democratiche ha riscritto le coordinate politiche di New York. La sua base – composta da giovani, minoranze, sindacalisti e attivisti – lo sostiene con entusiasmo. Ma i suoi oppositori – dentro e fuori il partito – vedono nella sua elezione una minaccia all’identità della città.
Addirittura, secondo alcuni osservatori, la polarizzazione potrebbe aprire le porte a una storica vittoria repubblicana: il candidato Curtis Sliwa, ex vigilante metropolitano e oggi figura atipica ma visibilmente in crescita nei sondaggi, potrebbe approfittarne. «Pazzo, ma non antisemita», scrivono ironicamente alcuni editorialisti.
Un attacco alla democrazia?
Nel frattempo, Mamdani ha risposto alle minacce di Trump con il consueto tono diretto: «Le sue parole sono un attacco alla democrazia – ha dichiarato – ma noi non ci faremo intimidire. Non arretreremo di un passo».
La sfida è ora apertissima. Ma il rischio è che lo scontro degeneri. Che la retorica superi il dibattito. E che, in mezzo a tutto questo rumore, a farne le spese sia proprio ciò che Mamdani dice di voler difendere: la democrazia.