di Ilaria Myr
Eroine del nostro tempo: intervista a Yasmine Mohammed: il matrimonio forzato con un terrorista di Al Qaeda. L’educazione all’odio verso gli ebrei. Gli abusi fisici e psicologici. Il tentato suicidio e poi la ribellione. Nata in una famiglia palestinese emigrata in Canada, l’attivista Yasmine Mohammed racconta la sua lotta per i diritti umani, contro l’antisemitismo e il fondamentalismo. Una voce fuori dal coro e con un messaggio chiaro: l’Occidente deve smettere di rafforzare l’Islam radicale. In questa intervista Yasmine narra la sua storia e la sua lotta
«Per quasi venti volte al giorno mi riferivo ai non musulmani come a dei nemici di Allah (…), ripetevo che gli ebrei erano subumani. Ma non volevo dire queste cose! (…) I più odiati di tutti sono gli ebrei e non è un’esagerazione. L’odio per gli ebrei nell’Islam è molto chiaro, profondo e implacabile (…). Generazione dopo generazione ai bambini musulmani viene fatto il lavaggio del cervello per odiare tutti gli ebrei, perché Allah li odia senza motivo”.
Sono parole che fanno male, crude, quelle che la canadese Yasmine Mohammed scrive sull’odio per gli ebrei nel mondo musulmano, nella sua autobiografia Unveiled: How the West Empowers Radical Muslims tradotto in 16 lingue (in italiano è uscito come Senza velo. Come l’Occidente rafforza l’Islam radicale, Hope edizioni): un testo sincero e doloroso, in cui racconta senza filtri la sua infanzia di bambina musulmana sottoposta a violenze fisiche e psicologiche, il suo matrimonio forzato con un terrorista di Al Qaeda, e il suo affrancamento da un mondo in cui non si è mai riconosciuta e da cui ha preso definitivamente le distanze, tanto da arrivare a definirsi “ex musulmana”. Oggi Yasmine dedica la sua vita alla lotta per i diritti umani e contro l’islamismo e l’antisemitismo, con conferenze e interventi in tutto il mondo e online, e soprattutto con un podcast settimanale su YouTube che conta oltre 28.000 follower, su cui pubblica gli interventi di “liberi pensatori provenienti dal Medio Oriente – così si legge sul canale – le cui storie non vengono ascoltate perché messe a tacere da società oppressive o perché le società libere le considerano politicamente scorrette”. Ha fondato l’associazione Free hearts free minds (“Cuori liberi menti libere”), che riunisce persone che hanno lasciato l’islam, ed è anche cofounder e codirector della CLARITy Coalition (Champions for Liberty Against the Reality of Islamist Tyranny), una coalizione di persone di diversa provenienza interessate a questi argomenti.
Per questo suo importante impegno abbiamo voluto intervistarla.
La sua storia
I genitori di Yasmine sono un palestinese di Gaza (all’epoca Egitto) e una donna egiziana, musulmani laici; si conoscono all’Università del Cairo, ma dopo essersi sposati si separano. «Mio padre era interessato all’Occidente e alla libertà e per questo si trasferirono inzialmente a San Francisco – spiega a Bet Magazine-Mosaico durante un’intensa videointervista -. Ma a mia madre tutto ciò non piaceva, e quindi andò a vivere a Vancouver, in Canada». Qui la madre, alla ricerca di una comunità e di contatti sociali, comincia a frequentare una moschea: siamo negli anni ’80 ed è l’epoca in cui nasce l’Islam politico. E lei vi rimane invischiata. Sposa solo religiosamente un uomo già coniugato con tre figli – l’Islam permette a un uomo di avere fino a quattro mogli -, e ne diventa la seconda moglie, non riconosciuta dallo Stato canadese. È l’ingresso nella famiglia di questo “marito”, religioso fanatico e violento, a trasformare in un incubo la vita di Yasmine e dei suoi fratelli.
«Non potevamo fare niente, tutto era haram, peccato – racconta -. Non potevamo vedere amici non musulmani, andare in bici, festeggiare il compleanno, nuotare, ascoltare musica. L’unica cosa che potevamo fare era pregare cinque volte al giorno e memorizzare il Corano, e se non lo facevamo venivamo picchiati. Quando mia madre mise l’hijab, lo impose anche a noi figlie. E io fui mandata a una scuola musulmana».
Ma Yasmine è una bambina curiosa, che si pone domande e che fatica ad accettare queste imposizioni senza una spiegazione logica. Le mancano i suoi amici non musulmani, la libertà che hanno i bambini della sua età. A 13 anni comincia a frequentare una scuola pubblica, ed è lì che prende per la prima volta in mano la propria vita. «A un professore con cui avevo instaurato un ottimo rapporto raccontai le violenze a cui ero sottoposta a casa. E lui sporse denuncia. Ma il giudice decise che non c’era abuso perché questo trattamento faceva parte della cultura musulmana, che questo era il modo in cui la mia famiglia aveva deciso di crescermi, e quindi non era perseguibile. Mi rimisero in famiglia, e l’incubo peggiorò».
Yasmine viene ritirata da scuola, gli abusi fisici e psicologici diventano sempre più violenti, tanto da farla cadere in depressione e tentare il suicidio. E poi, dopo averla mandata in Egitto «per non avere contatti con non musulmani», viene obbligata a sposarsi con un uomo musulmano radicalizzato. «‘Abbiamo trovato una persona abbastanza forte da controllarti’, mi disse mia madre. Con lui vissi chiusa in casa, mi picchiava, mi violentava, dovevo indossare il Niqab (il velo che lascia scoperti solo gli occhi, ndr). Ero una donna delle pulizie e schiava sessuale».
Ma alla nascita della figlia tutto cambia, «perché si può accettare tutto su di sé, ma non sui propri figli. Quando mia madre e il mio ex marito parlarono di portare mia figlia in Egitto per farle l’infibulazione, mi opposi fermamente. Dovevo allontanarmi da lui e da mia madre per proteggere mia figlia. Ho cominciato ad andare all’università dove seguivo dei corsi di religione, scoprendo la vera natura violenta dell’Islam».
L’11 settembre 2001 con l’attentato di Al Qaeda alle Torri Gemelle e al Pentagono, però, la sua vita viene sconvolta. «Scoprii che l’uomo che mi avevano forzato a sposare era un terrorista di Al Qaeda ed era implicato, e fui rintracciata dai media; quindi, mentre cercavo di avere una vita ‘normale’, la mia faccia veniva pubblicata sui giornali ed ero associata, mio malgrado, agli attentati dell’11 settembre. Fu allora che capii che non volevo più essere musulmana».
Non è però un cambio repentino, ma un processo lento, che la porta solo due anni dopo a dichiararsi “ex musulmana”: uno status che però l’Islam non accetta, e se non ci si pente entro tre giorni si deve essere uccisi. «Era un’epoca in cui si parlava di Islam in una visione distorta, come religione di pace, che l’hijab è una scelta, ecc… – continua -. Non potevo accettarlo: per questo ho deciso di scrivere il libro Unveiled, pubblicato nell’ottobre del 2019. Sapevo che stavo mettendo me e mia figlia in pericolo, ma sentivo di doverlo fare: mi motivavano le tante donne che mi scrivevano da tutto il mondo arabo ringraziandomi perché stavo raccontando anche la loro storia, grate che io da un paese libero potessi affrontare questo argomento, contrariamente a loro. Mi sono quindi sentita obbligata a parlare, per dare voce anche a queste donne».
Contro l’odio per gli ebrei
Ma la sua battaglia è anche contro l’antisemitismo profondamente radicato nel mondo musulmano, come dimostrano le frasi in apertura dell’articolo. «È una questione di educazione fin dalla prima infanzia e nelle scuole – spiega -. E quando i leader politici capiscono che questa narrativa può essere loro utile, la usano. Ma c’è possibilità di uscirne: lo hanno dimostrato alcuni Paesi arabi, che quando hanno deciso di avvicinarsi a Israele, perché più vantaggioso per loro, siglando gli Accordi di Abramo, hanno capito che non potevano più insegnare nelle scuole l’odio per gli ebrei. E l’Arabia Saudita, che pure non ha ancora fatto mosse ufficiali verso Israele, ha comunque tolto dai programmi scolastici i contenuti riferiti all’antisemitismo».
Purtroppo, i massacri del 7 ottobre 2023 perpetrati da Hamas in Israele non solo hanno confermato questo odio da parte dei musulmani, ma lo hanno fatto esplodere ovunque, anche in Occidente.
«Mi ero illusa che guardando le immagini delle violenze dei terroristi di Hamas sugli innocenti massacrati il 7 ottobre, il corpo seminudo e straziato di Shani Louk su cui i terroristi sputavano, il mondo avrebbe capito dov’era il Male. Ma già dall’8 ottobre in molti supportavano questi terroristi, senza dimostrare alcuna solidarietà con le vittime. Per me è stato uno shock. Non mi aspettavo di vedere un tale livello di odio e di malvagità in Occidente dove la storia dei nazisti e della Shoah è il paradigma del male. Qui però non si sa nulla delle violenze e dei soprusi nei confronti degli ebrei nei Paesi arabi: quindi nessuno mette in relazione quello che fecero i nazisti con quello che stanno facendo oggi gli islamisti in Occidente, bruciando sinagoghe e lanciando molotov a ebrei che stanno manifestando per il rilascio degli ostaggi. Come fanno a non vedere che è lo stesso comportamento?».
Molto è colpa dei social media, dove arrivano massicci finanziamenti islamici per diffondere la propaganda, ma che sono frequentati dai più giovani, che empatizzano facilmente senza conoscenze storiche. E poi, lo diceva Joseph Goebbels, capo della propaganda nazista, quando si ripete continuamente un concetto si finisce per farlo diventare vero.
«Come negli anni ’30, chi fa propaganda fa molto rumore e ha successo, e chi propone una narrativa diversa viene attaccato anche fisicamente. Quindi la gente viene spinta a non esprimersi, ma ciò non significa che sia dalla loro parte – continua Yasmine -. C’è molto più supporto fuori di quanto ci sia odio. In Canada l’antisemitismo è sì cresciuto del 700%, ma quando abbiamo fatto una marcia contro l’antisemitismo, c’erano più di 50.000 persone».
Un proverbio antico dice: “Fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce”. Quindi, Yasmine, la foresta sarà pur silenziosa, ma è più forte dell’albero che cade? «Assolutamente sì. E chi non è d’accordo deve unire le forze, per fare più baccano degli alberi singoli che cadono».