Nella serata di domenica 3 agosto si è tenuta una toccante conversazione in diretta con Ela Haimi, moglie di Tal Haimi, rapito il 7 ottobre 2023 mentre difendeva il suo kibbutz Nir Yitzhak, al confine con Gaza. L’evento, moderato dalla giornalista Tal Schneider, ha rappresentato molto più di una testimonianza personale: è stato un appello accorato e lucidissimo per la restituzione di tutti gli ostaggi — vivi o morti — e per la fine dei combattimenti.
Ela ha ricostruito la figura del marito con parole semplici e dense, ricordando come, nelle prime ore di quella mattina tragica, Tal lasciò la famiglia per unirsi ai compagni in difesa del kibbutz. Un gesto che sintetizza il suo spirito impavido e il suo attaccamento alla comunità. Il cognome “Haimi” — ha sottolineato Ela — significa Haim sheli, “vita mia” in ebraico, una sorta di presagio involontario per il destino eroico del marito.
Ela ha condiviso dettagli intimi della sua nuova quotidianità: tornata a vivere nel kibbutz solo a luglio, con quattro figli — l’ultimo nato a maggio 2024, frutto di una gravidanza seguita con partecipazione da tutto il Paese — si muove tra le esplosioni in sottofondo e la gioia dei bambini nel sentirsi finalmente a casa. “Possono correre nel kibbutz senza dirmi dove vanno”, racconta, anche se il neonato appare ancora spaesato. Ma per lei, casa sarà di nuovo tale solo quando anche il corpo di Tal potrà riposare lì.

Il racconto ha assunto i toni di un’esortazione civile: “Solo quando tutti gli ostaggi saranno tornati potremo tornare alle nostre vite”, ha affermato, sottolineando che il ritorno deve essere totale, in un’unica soluzione, e non parziale o scaglionato. Il rischio, ha detto, è di perdere ogni traccia, specialmente dei corpi. Ha citato i recenti video degli ostaggi David e Braslavski — immagini che “ricordano la Shoah” — per ribadire che il tempo stringe.
L’intervistatrice ha ricordato i disagi vissuti da Ela e dai suoi figli in questi mesi: quattro scuole cambiate, tre hotel diversi, una vita sballottata e precaria. “È troppo per un bambino”, ha detto Ela con la voce rotta, raccontando come spiegare l’assenza del padre sia quasi impossibile. “Non è vero che è morto se non c’è il corpo”, le dicevano i figli. Per questo, ha organizzato un funerale simbolico con il solo elmetto di Tal: un gesto disperato per offrire loro un senso di chiusura.
Ela ha condiviso anche il dolore straziante del ricordo quotidiano di Tal come marito e padre: un ingegnere meccanico dal carattere mite, devoto alla famiglia, sempre pronto a risolvere qualsiasi problema pratico e a concludere la giornata leggendo libri ai bambini. Una vita semplice, fatta di gesti silenziosi e affetto costante, che oggi appare ancora più lontana, quasi irreale, a confronto con la nuova quotidianità segnata dall’assenza, dallo sradicamento e dalla guerra. “È cambiato tutto, nulla sarà più come prima” — ha detto Ela — alludendo non solo alla perdita personale, ma al crollo dell’intero tessuto familiare e comunitario.

Nel giorno di Tisha Be-Av, la giornata ebraica del lutto e della distruzione, Ela ha legato il 7 ottobre a una delle grandi catastrofi della storia del popolo ebraico. La sua testimonianza ha avuto la forza di un discorso universale sul dolore, sulla memoria e sull’urgenza della pace.
A chi ha domandato come aiutare, Ela ha risposto: “Comportatevi come se fosse vostro padre, vostro figlio e siate attivi. Unitevi ad ogni protesta Run for their lives vicino a voi. Parlatene in continuazione sui social media, è un problema di ognuno di noi. Che tornino è fondamentale per ognuno di noi. Le nostre comunità in tutto il mondo sono la nostra forza.”
Non una semplice intervista, ma una dichiarazione d’amore e resistenza. Un appello che nessuno — politico, cittadino o spettatore — può permettersi di ignorare.
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