di Nina Deutsch
Dal Nepal al Brasile, dal Sudan alla Thailandia, dall’Europa all’America: il massacro di Hamas ha colpito un mosaico di studenti, migranti, professionisti e lavoratori provenienti da tutto il mondo, inclusi arabi e beduini israeliani. Un caleidoscopio di vite spezzate, storie invisibili che il dibattito pubblico ha ignorato, cancellando sogni e biografie. Un’umanità che Israele, estremamente variegata sul piano etnoculturale e religioso, ospitava e che la violenza ha annientato. (da sinistra, Joshua Moitu Mollel e il tailandese Sudthisak Rinthalak)
«Le vittime del 7 ottobre che il mondo ha scelto di ignorare». È questo il titolo, asciutto e amaro, dell’articolo pubblicato su The Jewish News a firma di Gary Cohen che riporta all’attenzione un aspetto rimasto ai margini del racconto mediatico. Un titolo che spalanca uno squarcio su una dimensione per lo più ignorata: la pluralità umana che il massacro di Hamas ha travolto.
Una pluralità che racconta cos’è davvero Israele – non soltanto un Paese, ma uno specchio del mondo. Una società intrecciata e multietnica, attraversata dalle storie di studenti, ricercatori, lavoratori migranti, caregiver, agronomi, persone in cerca di un’occasione. E sono proprio queste vite, venute «per costruirsi un futuro migliore», a essere state cancellate da una violenza che nulla aveva di politico, rivoluzionario o liberatorio.
Molti di loro provenivano da Paesi che gli stessi attivisti occidentali evocano quando parlano di “Sud globale”: Thailandia, Nepal, Tanzania, Filippine, Sri Lanka, Cambogia. Raccoglievano frutta nei campi, assistevano anziani, studiavano tecniche agricole per riportarle a casa e migliorare la propria comunità. «Avevano nomi che in Occidente molti faticherebbero perfino a pronunciare», scrive Cohen. Eppure le loro storie parlano a tutti – e dicono qualcosa anche su chi, oggi, sceglie di ignorarle.
Tanzania – Il silenzio sugli alberi del Kibbutz
Clemence Felix Mtenga, 22 anni, era arrivato al Kibbutz Nir Oz da appena tre settimane. Partecipava a un programma agricolo pensato per aiutare giovani tanzaniani a sottrarre le proprie famiglie alla povertà. Il 7 ottobre è stato ucciso, il corpo ritrovato solo dopo quarantuno giorni. Sulla sua tomba, in Tanzania, è inciso un versetto scelto dal padre, tratto dal Deuteronomio: «L’albero del campo è forse un uomo, perché tu lo assedi?». Una domanda che pesa come un macigno sul presente.
A pochi chilometri da lì, un altro giovane tanzaniano, Joshua Loitu Mollel, 21 anni, arrivato al Kibbutz Nahal Oz per imparare l’irrigazione a goccia appena 19 giorni prima dell’attacco, è stato massacrato. I terroristi hanno filmato la sua esecuzione e diffuso il video online; Human Rights Watch ne ha verificato l’autenticità. Il suo corpo è stato trascinato a Gaza e restituito soltanto nel novembre 2025. Anche questa è una parte della verità che molti preferiscono non vedere.
Thailandia – Lavoratori invisibili anche da morti
Dopo gli israeliani, i thailandesi rappresentano il gruppo più numeroso di vittime straniere: stando ai dati citati da HRW, trentadue thailandesi sono stati assassinati, di cui dodici giustiziati nel kibbutz Alumim, situato nel deserto del Negev nord-occidentale, nel sud di Israele. In tutto i morti sono una quarantina, ventidue i rapiti e diciannove i feriti. Il corpo di uno di loro, Sudthisak Rinthalak (a destra nella foto), è ancora a Gaza.
In un filmato presentato all’ONU, un terrorista di Hamas decapita un bracciante thailandese con una zappa, urlando “Allah hu Akbar”: era un lavoratore migrante che mandava soldi a casa; un semplice lavoratore brutalmente decapitato davanti alle telecamere.
Nepal – Il coraggio nel dormitorio assediato
Anche diciassette studenti nepalesi di agricoltura si trovavano al Kibbutz Alumim. Erano venuti per imparare le nuove tecniche moderne e tornare a casa con nuove competenze. All’alba, Hamas ha lanciato granate contro il loro dormitorio. Dieci morti, sei feriti, uno rapito: Bipin Joshi, 23 anni. Prima di essere catturato, ha afferrato una granata e l’ha rilanciata fuori, salvando i suoi compagni. Un ragazzo dotato di grandissimo coraggio e di generosità che merita di essere onorato e ricordato. Bipin è stato ucciso in prigionia dopo essere stato filmato da Hamas. La sua salma è rientrata in Nepal avvolta nella bandiera del Paese. Un ritorno che non ha lenito il dolore dei familiari, rimasti con un’unica, straziante domanda: perché?
Cambogia – Uno studente qualunque, in un mattino qualunque
Chan Oudom, studente di veterinaria, è morto sul colpo nel suo appartamento colpito dai razzi il 7 ottobre. Era uno dei 400 cambogiani in Israele per tirocinio presso il kibbutz Holit, nella regione di Hevel Shalom, nel sud-ovest di Israele. Il giovane ha partecipato a un programma ufficiale gestito in collaborazione con centri di formazione come “Agrostudies” e MASHAV, l’Agenzia israeliana per la cooperazione allo sviluppo internazionale. Il re e il primo ministro della Cambogia hanno inviato le condoglianze ufficiali. In Occidente, il suo nome non l’ha ricordato quasi nessuno.
Le badanti – L’ultimo gesto, restare accanto ai fragili
Nel kibbutz Be’eri e in altri villaggi, alcune caregiver straniere hanno compiuto un gesto di puro eroismo: non abbandonare gli anziani affidati alle loro cure. Grace Cabrera, Paul Vincent Castalvi, Anola Ratanika, Sujit Yatawara, Angelyn Aguirre: molte di loro sono morte stringendo porte, proteggendo persone non autosufficienti, opponendosi a una ferocia che non lasciava scampo. «Non facevano parte di questo conflitto. Ci sono stati trascinati dentro», ha detto il direttore del kibbutz Be’eri.
Arabi e beduini israeliani, massacrati da Hamas che non ha chiesto passaporti
Per Hamas la “liberazione” non riguarda i fratelli arabi in Israele che sono stati uccisi senza pietà: paramedici, lavoratori, intere famiglie. Come il 23enne Awad Darawshe, un paramedico arabo-israeliano, colpito mentre soccorreva i feriti al festival Nova. O la famiglia beduina Ziyadne, rapita quasi al completo. O la neonata Naama Abu Rashed, ferita nel grembo materno e vissuta solo quattordici ore.
ProPal che ignorano i loro fratelli uccisi da Hamas
Chi nelle piazze occidentali parla di oppressi e oppressori, di giustizia globale e di solidarietà internazionale, sembra dimenticare che tra le vittime del 7 ottobre c’erano persone che incarnano proprio quelle categorie: neri africani, studenti del Sud del mondo, donne migranti, lavoratori poveri. Eppure, queste vite sono scomparse dal racconto pubblico. «L’intersezionalità funziona solo quando le vittime servono alla narrazione», osserva amaramente Cohen.
La realtà, conferma Human Rights Watch, è che il 7 ottobre è stato «un attacco sistematico contro civili». Joshua, Clemence, Bipin, Grace, Awad, Naama e tutti gli altri non sono morti per errore, non sono “danni collaterali”, non sono simboli da usare a piacimento. Sono persone a cui è stato strappato il futuro. Raccontare i loro nomi è il minimo che possiamo fare. Perché – come conclude Cohen – «se non siete indignati, siete complici».



