di Anna Balestrieri (Gerusalemme)
Solo pochi giorni fa, il clima internazionale appariva profondamente sfavorevole a Israele. La campagna anti-israeliana cresceva di intensità, alimentata da immagini di bambini denutriti a Gaza diffuse sui media internazionali e da manifestazioni pro-Palestina in tutto il mondo. Sull’onda emotiva, diversi Paesi europei si sono allineati alla Francia verso il riconoscimento di uno Stato palestinese. Allo stesso tempo, il fallito raid israeliano contro leader di Hamas in Qatar ha compattato i Paesi musulmani in una dura offensiva retorica.
Il punto culminante si è raggiunto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dove vari leader hanno annunciato il riconoscimento della Palestina, accusando Israele di ostacolare gli aiuti umanitari. Nel frattempo, sul terreno, l’IDF avanzava dentro Gaza City senza ottenere un rilascio imminente degli ostaggi.
Trump in scena: diplomazia al massimo livello
Il quadro è mutato radicalmente con l’incontro di lunedì alla Casa Bianca. Donald Trump, in una delle giornate più decisive della sua presidenza, ha presentato un piano per la fine della guerra a Gaza. Nonostante i momenti di avanspettacolo tipici del tycoon — battute improvvisate, attacchi a Biden, pronunce creative dell’ebraico — il presidente americano ha raccolto attorno al tavolo figure politiche fino a ieri inconciliabili: dal premier israeliano Benjamin Netanyahu al presidente turco Recep Tayyip Erdogan, dal Qatar all’Indonesia, passando per Egitto, Pakistan e Giordania.
Tre settimane dopo i missili israeliani contro Doha, Netanyahu ha chiesto scusa all’emiro del Qatar, e grazie alla mediazione statunitense si è aperto un quadro trilaterale di discussione.
La proposta americana
Il piano, definito “Principles for Peace”, prevede:
- rilascio immediato di tutti gli ostaggi entro 72 ore, inclusi i corpi dei caduti;
- disarmo graduale di Hamas, con smantellamento delle infrastrutture terroristiche;
- creazione di una nuova autorità di transizione a Gaza, sostenuta da partner regionali e da esperti internazionali;
- ritiro progressivo delle forze israeliane in base ai risultati ottenuti;
- istituzione di un “Board of Peace” guidato dallo stesso Trump, insieme a leader arabi e personalità internazionali, con il compito di sovrintendere alla ricostruzione e al nuovo governo della Striscia.
“Se Hamas accetta, la guerra finisce. Se rifiuta, Israele avrà il pieno appoggio degli Stati Uniti per completare la distruzione della minaccia”, ha dichiarato Trump.
Il testo integrale delle dichiarazioni congiunte del Presidente Donald Trump e del Primo Ministro Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca il 29 settembre 2025 può essere letto qui.
Netanyahu tra pace e rischi politici
Netanyahu ha accettato la proposta, pur ribadendo la sua opposizione a uno Stato palestinese. L’accordo rappresenta per lui la possibilità di raggiungere gli obiettivi dichiarati della guerra: liberare gli ostaggi e rimuovere Hamas, nonché rilanciare la normalizzazione con i Paesi arabi.
Tuttavia, la mossa rischia di incrinare i rapporti con i partner della destra israeliana, contrari a rinunciare ad annessioni in Cisgiordania o reinsediamenti a Gaza. Nonostante ciò, osservatori notano che gli obiettivi politici interni non coincidono con le finalità iniziali del conflitto.
Il futuro della regione
Trump ha parlato di “una giornata storica, forse una delle più grandi della civiltà”, con la prospettiva di estendere gli Accordi di Abramo a nuovi Paesi, inclusa — ipotesi impensabile fino a ieri — l’Iran.
Resta l’incognita su Hamas, che difficilmente accetterà senza resistenze. È probabile che cerchi di guadagnare tempo o mantenere parte del proprio arsenale. Ma la pressione congiunta di Israele, Stati Uniti e mondo arabo lo mette di fronte a una scelta cruciale.
La reazione del mondo arabo
La dichiarazione, pubblicata dai ministri degli Esteri di Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Pakistan, Turchia, Qatar ed Egitto, ha salutato gli “sforzi sinceri” di Trump e ha affermato la “fiducia nella sua capacità di trovare un percorso verso la pace.”
Il piano di 20 punti, intitolato “Comprehensive Plan to End the Gaza Conflict”, è stato reso pubblico dalla Casa Bianca poco prima della conferenza stampa congiunta con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha confermato che Israele ha accettato la proposta.
Hamas non ha ancora reagito ufficialmente, ma fonti qatariote hanno riferito che Qatar ed Egitto hanno trasmesso il piano alla leadership del movimento, la quale si è impegnata a esaminarlo “in modo responsabile.”
Gli otto paesi firmatari hanno sottolineato “l’importanza della partnership con gli Stati Uniti per garantire la pace nella regione” e hanno riaffermato il loro “impegno comune a collaborare in maniera positiva e costruttiva con Washington e con le parti interessate per finalizzare l’accordo e garantirne l’attuazione.”
Secondo la dichiarazione, l’obiettivo condiviso è concludere la guerra attraverso un accordo complessivo che assicuri l’ingresso illimitato di aiuti umanitari a Gaza, impedisca lo sfollamento dei palestinesi, porti al rilascio degli ostaggi, stabilisca un meccanismo di sicurezza che garantisca la protezione di tutte le parti, preveda il completo ritiro israeliano, la ricostruzione della Striscia e una prospettiva credibile per una pace giusta basata sulla soluzione dei due Stati.
Il coinvolgimento saudita e qatariota ha colpito particolarmente gli osservatori: entrambi i paesi non hanno al momento relazioni formali con Israele, ma hanno assunto negli ultimi anni un ruolo centrale nella mediazione. L’Arabia Saudita ha segnalato che una normalizzazione futura resta legata a progressi concreti verso lo Stato palestinese, mentre il Qatar ha ribadito la necessità di un cessate il fuoco duraturo come condizione preliminare.
Indonesia e Pakistan, le due nazioni musulmane più popolose, hanno confermato che non apriranno rapporti diplomatici con Israele senza impegni vincolanti sulla creazione di uno Stato palestinese. Tuttavia, Giacarta ha offerto l’invio di truppe in un’eventuale forza internazionale di pace a Gaza, mentre Islamabad ha espresso sostegno esplicito a Trump, vedendo nel piano un’occasione per rafforzare i legami con Washington.
Il presidente statunitense ha accolto con favore in particolare le parole del premier pakistano Shehbaz Sharif, che ha dichiarato sui social di avere “piena fiducia che Trump sia pronto ad assistere in ogni modo necessario” per garantire la fine del conflitto.
Secondo il piano, se entrambe le parti accetteranno, le ostilità finiranno immediatamente e tutti gli ostaggi rimasti saranno liberati entro 72 ore. I membri di Hamas che sceglieranno la coesistenza pacifica e la consegna delle armi riceveranno l’amnistia, mentre i civili che vorranno lasciare Gaza verrà garantito un passaggio sicuro.
Gli aiuti umanitari potranno quindi affluire liberamente, accompagnati da un processo di smilitarizzazione, deradicalizzazione e ricostruzione. Una forza di sicurezza internazionale prenderà gradualmente il posto delle IDF, mentre verrà istituito un governo transitorio di tecnocrati palestinesi affiancato da un comitato consultivo internazionale guidato da Trump e con la partecipazione di Tony Blair.
L’Autorità Palestinese ha accolto favorevolmente gli sforzi americani e si è impegnata ad avviare riforme strutturali, comprese elezioni presidenziali e parlamentari entro un anno dalla fine della guerra, la revisione del sistema educativo e la costruzione di uno Stato democratico e smilitarizzato.
La reazione non è stata però unanime. La Jihad Islamica Palestinese ha respinto con forza il piano, definendolo “una formula per incendiare la regione” e accusando Israele di voler imporre tramite gli Stati Uniti ciò che non è riuscito a ottenere con la guerra.
Sul terreno, tra i gazawi divisi tra speranza e scetticismo, molti hanno espresso sfiducia. Alcuni lo hanno definito “una farsa” destinata a fallire, altri hanno visto nella proposta un inganno per ottenere la liberazione degli ostaggi senza vere garanzie di pace. Tuttavia, non sono mancati coloro che, nonostante le perdite e la sofferenza, hanno voluto credere che possa essere “un momento di gioia che faccia dimenticare il dolore.”