Trump mette in guardia Netanyahu sulla Cisgiordania: divergenze USA–Israele tra violenza dei coloni e crisi dell’Autorità Palestinese 

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di Anna Balestrieri
Secondo un alto funzionario americano, le discussioni si sono svolte in un clima cordiale, ma Washington teme che l’instabilità in Cisgiordania possa compromettere sia la stabilizzazione di Gaza sia l’ampliamento degli Accordi di Abramo.

Nel corso dell’incontro di lunedì 29 dicembre a West Palm Beach, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e i suoi principali consiglieri hanno espresso preoccupazione per le politiche israeliane in Cisgiordania, affrontando direttamente con il primo ministro Benjamin Netanyahu temi sensibili come la violenza dei coloni, l’espansione degli insediamenti e il blocco dei fondi fiscali destinati all’Autorità Palestinese.

Secondo un alto funzionario americano, le discussioni si sono svolte in un clima cordiale, ma Washington teme che l’instabilità in Cisgiordania possa compromettere sia la stabilizzazione di Gaza sia l’ampliamento degli Accordi di Abramo.

“Non siamo d’accordo al 100%”

Interpellato dai giornalisti sulla questione della violenza dei coloni israeliani contro i palestinesi, Trump ha ammesso l’esistenza di divergenze con Netanyahu. «Abbiamo discusso a lungo della Cisgiordania e non direi che siamo d’accordo al cento per cento», ha dichiarato il presidente, aggiungendo tuttavia di essere convinto che il premier israeliano «farà la cosa giusta».

Trump ha evitato di entrare nei dettagli delle divergenze, lasciando intendere che il dossier resti aperto e politicamente delicato.

Il nodo dei fondi bloccati e il rischio collasso della PA

Uno dei punti centrali del confronto riguarda il congelamento di diversi miliardi di dollari di entrate fiscali palestinesi, riscosse da Israele per conto dell’Autorità Palestinese. Il blocco, in vigore a fasi alterne dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, ha portato il governo di Ramallah sull’orlo del collasso finanziario.

Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha giustificato la misura sostenendo che i fondi “finanziano il terrorismo”, dichiarando apertamente di voler perseguire la “strangolazione economica” dell’Autorità Palestinese per impedire la nascita di uno Stato palestinese.

Washington, al contrario, spinge Israele a sbloccare i trasferimenti, temendo che il crollo della PA crei un vuoto di potere che potrebbe essere colmato da Hamas o da altri attori armati.

Violenza dei coloni: numeri in crescita, impunità diffusa

Il 2025 ha registrato un’impennata senza precedenti degli attacchi di estremisti contro civili palestinesi e le loro proprietà. Secondo l’IDF, dall’inizio dell’anno sono stati documentati oltre 752 episodi di “crimini nazionalistici”, superando già il totale del 2024.

Gli attacchi, spesso quotidiani, rimangono in larga parte impuniti. Le incriminazioni sono rare e le condanne ancora più sporadiche, alimentando accuse secondo cui il governo più a destra della storia israeliana stia di fatto tollerando la violenza.

Espansione degli insediamenti e frizione con il diritto internazionale

Oltre alla violenza dei coloni, Israele ha accelerato l’espansione della propria presenza civile in Cisgiordania, annunciando la creazione di 11 nuovi insediamenti e la legalizzazione di otto avamposti precedentemente illegali.

Le Nazioni Unite hanno segnalato che l’espansione degli insediamenti ha raggiunto il livello più alto almeno dal 2017, ribadendo che tali costruzioni sono illegali secondo il diritto internazionale. Israele contesta questa interpretazione, invocando legami storici e necessità di sicurezza.

Pressioni interne su Netanyahu

Netanyahu si trova stretto tra le richieste americane di contenimento e le pressioni dei partner di coalizione di estrema destra, che sostengono l’annessione della Cisgiordania, l’espansione degli insediamenti e la fine dell’Autorità Palestinese.

Questa tensione interna limita i margini di manovra del premier, rendendo ogni concessione politicamente costosa.

Un’alleanza solida, ma non senza crepe

Nonostante le divergenze sulla Cisgiordania, l’incontro è stato descritto da entrambe le parti come estremamente positivo. Un alto funzionario israeliano lo ha definito “il migliore” tra i sei incontri avvenuti dall’inizio del nuovo mandato di Netanyahu.

Durante la conferenza stampa congiunta, Trump e Netanyahu si sono scambiati elogi, con il presidente americano che ha definito il leader israeliano “un primo ministro in tempo di guerra” capace di “un lavoro fenomenale”.

Dietro i sorrisi e le dichiarazioni di unità, tuttavia, la Cisgiordania resta un punto di frizione strutturale: un dossier che mette alla prova l’equilibrio tra alleanza strategica, stabilità regionale e credibilità politica di entrambe le leadership.

Gaza, Hamas e Iran: il fronte della piena convergenza

Se sulla Cisgiordania emergono divergenze esplicite, il quadro cambia radicalmente quando il dossier si sposta su Gaza, Hamas e Iran. Nella conferenza stampa congiunta a Mar-a-Lago, Trump ha dichiarato che Israele ha rispettato “al 100%” gli impegni previsti dalla prima fase dell’accordo di cessate il fuoco su Gaza, affermando di non nutrire “alcuna preoccupazione su ciò che Israele sta facendo”, ma semmai su ciò che altri attori “stanno facendo o non stanno facendo”.

Il presidente americano ha ribadito che la seconda fase dell’accordo potrà avanzare solo a condizione della smilitarizzazione e del disarmo di Hamas, lanciando un avvertimento netto: se l’organizzazione terroristica non rispetterà gli impegni presi, “there will be hell to pay”. Trump ha precisato che Hamas avrà un lasso di tempo “piuttosto breve” per conformarsi, mentre gli Stati Uniti — attraverso l’inviato Steve Witkoff e Jared Kushner — resteranno coinvolti nei colloqui sul disarmo.

Il sostegno a Israele come pilastro strategico regionale

Sul piano strategico, Trump ha assunto un tono marcatamente solidale nei confronti di Netanyahu, definendo il rapporto bilaterale “migliore che mai” e attribuendo alla leadership israeliana un ruolo centrale nella ridefinizione dell’ordine regionale. Il presidente ha lasciato intendere di essere disposto a sostenere nuove azioni militari contro l’Iran qualora Teheran riprendesse lo sviluppo di programmi nucleari o missilistici, arrivando a dichiarare che gli Stati Uniti e Israele “li abbatteranno di nuovo” se necessario.

La convergenza è totale anche sul fronte libanese e su Hezbollah, mentre Trump ha celebrato apertamente l’efficacia delle precedenti operazioni militari congiunte, sostenendo che senza la sconfitta dell’Iran “non ci sarebbe stata alcuna pace in Medio Oriente” né gli Accordi con i Paesi arabi.

Una linea americana bifronte

Il risultato è una linea americana bifronte: pressione politica su Cisgiordania e Autorità Palestinese, accompagnata però da un sostegno senza ambiguità a Israele sul piano militare, securitario e strategico. Trump distingue nettamente tra ciò che considera un problema di gestione interna e territoriale — la Cisgiordania — e ciò che definisce una guerra esistenziale contro attori armati regionali, da Hamas a Hezbollah fino all’Iran.

In questa distinzione si gioca l’equilibrio del rapporto tra Washington e Gerusalemme: un’alleanza che resta solida, ma che non esclude richiami, pressioni e divergenze mirate, soprattutto quando gli Stati Uniti temono che l’instabilità locale possa compromettere un progetto regionale più ampio.