Annunci e clima prima del discorso
Alla vigilia del discorso del premier israeliano Benjamin Netanyahu all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, l’attenzione era concentrata sulla sua posizione riguardo al conflitto in Medio Oriente e alle pressioni internazionali per una soluzione a due Stati. Le anticipazioni da Gerusalemme lasciavano presagire un intervento duro e privo di concessioni. In aula, numerose delegazioni hanno deciso di abbandonare i propri posti al momento dell’intervento, segnalando una frattura diplomatica evidente.
“Due Stati? Una follia”
Negli Stati Uniti, il discorso arriva poco prima dell’incontro con Donald Trump, che ha ribadito la sua opposizione all’annessione della Cisgiordania da parte di Israele, definendo quanto già in corso “abbastanza”.
All’ONU, il discorso è stato accolto da una massiccia protesta diplomatica: decine di delegati hanno lasciato l’aula in segno di dissenso, in particolare da paesi arabi, africani e da alcune delegazioni europee.
Nonostante il boicottaggio, Netanyahu ha denunciato le decisioni recenti di riconoscere la Palestina come Stato, definendole un “incoraggiamento al terrorismo”.
Sul fronte giudiziario, ricordiamo che la Corte Penale Internazionale (CPI) ha emesso mandati d’arresto contro Netanyahu per presunti crimini durante il conflitto, aggravando l’immagine di isolamento dello Stato israeliano. Netanyahu ha ribadito che la radice del conflitto non è l’assenza di uno Stato palestinese, ma l’esistenza stessa dello Stato ebraico. Ha elencato i rifiuti storici dell’OLP e dell’Autorità Palestinese a ogni offerta di pace, denunciando il sistema di stipendi ai terroristi e l’educazione all’odio nei libri scolastici.
“Dare uno Stato palestinese un miglio da Gerusalemme dopo il 7 ottobre sarebbe come aver dato uno Stato ad al-Qaeda a un miglio da New York dopo l’11 settembre”, ha dichiarato.
Uscita dei delegati e reazioni immediate
Durante le prime battute del discorso, un folto gruppo di rappresentanti di Paesi arabi e occidentali ha lasciato l’aula in segno di protesta. Netanyahu ha proseguito senza accennare al gesto, ma il clima ha sottolineato l’isolamento di Israele su alcuni fronti, in particolare dopo il recente riconoscimento della Palestina da parte di diversi governi occidentali.
La difesa di Israele: “Combattiamo per il mondo libero”
Netanyahu ha ribadito che Israele non agisce solo per sé stesso ma per l’intera comunità internazionale, grazie a un’intelligence che ha contribuito a sventare numerosi attacchi in Europa e negli Stati Uniti. Ha paragonato il 7 ottobre 2023 a un ipotetico attacco su larga scala contro l’America, sostenendo che qualsiasi altro Paese avrebbe reagito con la stessa determinazione.
Nel suo intervento, Netanyahu ha sottolineato che Israele non combatte solo per sé stesso, ma per l’intero mondo libero. Ha affermato che dietro le porte chiuse, molti leader che pubblicamente condannano Israele “privatamente ringraziano” per l’intelligence fornita da Tel Aviv, intelligence che avrebbe sventato più volte attacchi terroristici in capitali occidentali.
Citato l’ex capo dell’intelligence dell’aeronautica statunitense, generale George Keegan: “Se gli Stati Uniti dovessero raccogliere da soli l’intelligence che Israele ci fornisce, servirebbero cinque CIA”.
Il premier israeliano ha proposto un esercizio immaginativo al pubblico: “Se 40.000 americani fossero stati massacrati e 10.000 presi in ostaggio, gli Stati Uniti avrebbero annientato il regime responsabile”. Da qui la sua difesa delle operazioni a Gaza: “Israele sta facendo esattamente questo con Hamas: eliminare un regime terrorista che non deve mai più minacciare il nostro popolo”.
Accuse all’Occidente: “Avete ceduto alla pressione”
Il premier ha criticato governi e media occidentali, accusandoli di essersi piegati a pressioni di gruppi radicali e di movimenti antisraeliani. Ha denunciato l’uso della “lawfare”, ossia l’impiego di tribunali e organizzazioni internazionali come strumenti contro Israele.
Uno dei passaggi più duri è stato rivolto a Francia, Regno Unito, Canada, Australia e altri paesi che hanno recentemente riconosciuto lo Stato di Palestina. Netanyahu ha accusato questi governi di “premiare i peggiori antisemiti sulla terra” e di mandare ai palestinesi il messaggio che “uccidere ebrei paga”.
Netanyahu ha criticato duramente i governi occidentali che, dopo un iniziale sostegno a Israele, avrebbero “ceduto a un media fazioso, alle comunità islamiste radicali e a folle antisemite”.
Ha parlato di un conflitto condotto su sette fronti contemporaneamente, non solo militari ma anche diplomatici e legali, denunciando la cosiddetta “lawfare” — guerra giudiziaria e politica contro Israele.
Secondo il premier israeliano, il sostegno popolare palestinese al massacro del 7 ottobre (che ha stimato vicino al 90%) dimostra che la società nel suo complesso non vuole una convivenza, ma la distruzione di Israele.
“Non genocidio, ma difesa”
Netanyahu ha definito le accuse di genocidio a Gaza una “menzogna antisemita”.
Il premier ha respinto con forza le accuse di genocidio a Gaza. Citando l’esperto americano di guerra urbana John Spencer, ha affermato che Israele applica più misure per ridurre le vittime civili di qualsiasi esercito nella storia, accusando Hamas di usare la popolazione come scudi umani.
Ha ricordato che 700.000 civili palestinesi sarebbero stati evacuati da Gaza City dopo settimane di volantini, sms e telefonate dell’IDF, sostenendo che Hamas “usa i civili come scudi umani e come arma di propaganda”.
Netanyahu ha poi ribaltato l’accusa: “Ogni vittima civile è una tragedia per Israele, ma è una strategia per Hamas”.
Un punto centrale è stato dedicato alle accuse di carestia: “Israele ha fatto entrare oltre due milioni di tonnellate di cibo e aiuti – un tonnellaggio che garantirebbe quasi 3.000 calorie al giorno a ogni abitante di Gaza”.
Secondo Netanyahu, se parte della popolazione soffre la fame è perché Hamas saccheggia e rivende gli aiuti. Ha citato persino dati ONU secondo cui fino all’85% dei camion sarebbe stato depredato dai gruppi armati. Ha sottolineato che milioni di tonnellate di aiuti sono stati fatti entrare a Gaza e che i saccheggi da parte di Hamas sarebbero la causa di eventuali carenze.
Il premier ha paragonato le accuse moderne a Israele a “calunnie medievali” contro gli ebrei, come quelle di avvelenare i pozzi o usare sangue per i riti religiosi. Ha collegato queste “menzogne” a una recrudescenza di attacchi contro ebrei in Occidente, citando episodi recenti in Canada, Australia, Europa e Stati Uniti, incluso l’omicidio di una coppia diplomatica israeliana a Washington davanti al Museo dell’Olocausto.
Rifiuto della soluzione a due Stati
Uno dei passaggi chiave è stato il rifiuto esplicito della creazione di uno Stato palestinese. Netanyahu ha affermato che non si tratta della sua linea personale, né di una pressione dei partiti più a destra, ma di una posizione condivisa: “Su 120 membri della Knesset, 99 hanno votato contro. È oltre il 90% degli israeliani”.
Ha definito l’ipotesi di uno Stato palestinese “una follia” dopo il 7 ottobre, paragonandola a “dare un Paese ad al-Qaeda a un miglio da New York dopo l’11 settembre” (uno Stato palestinese sorgerebbe ad un miglio da Gerusalemme ovest).
Aperture sulla Siria e sul Libano
Accanto alle posizioni dure, Netanyahu ha introdotto una prospettiva di negoziati con governi vicini: ha confermato contatti con la nuova leadership siriana e si è detto pronto a un accordo che garantisca la sicurezza israeliana e delle minoranze, in particolare i drusi. Ha rivolto anche al Libano un invito a trattative dirette, subordinando ogni passo concreto al disarmo di Hezbollah.
Visione regionale: dall’Iran agli Accordi di Abramo
Netanyahu ha previsto un futuro Medio Oriente radicalmente diverso: “Molti di quelli che oggi ci combattono domani spariranno e lasceranno spazio ai pacificatori”. Ha citato con favore le parole del presidente indonesiano e parlato di un possibile ampliamento degli Accordi di Abramo. Ha anche lanciato un messaggio agli iraniani, auspicando un ritorno alla libertà e alla cooperazione con Israele.
La chiusura: la resilienza di Israele
Nelle ultime battute, Netanyahu ha richiamato la storia millenaria del popolo ebraico, segnato da persecuzioni e massacri. Ha presentato Israele come realizzazione del sogno di vivere liberi e difendersi con un proprio esercito, ribadendo che gli attacchi del 7 ottobre non hanno spento ma rafforzato quella luce.
“Israele non si piegherà. Con l’aiuto di Dio, la nostra forza ci porterà a una vittoria rapida e a un futuro di prosperità e pace”, ha concluso, ricevendo l’applauso di una parte dell’aula (principalmente dai banchi di Israele, Stati Uniti e Guinea-Bissau) e il silenzio di chi aveva già abbandonato i lavori.
Un messaggio agli ostaggi trasmesso oltre confine
Uno degli aspetti più controversi è stato il tentativo del governo israeliano di diffondere il discorso via altoparlanti lungo il confine con Gaza, così da raggiungere gli ostaggi ancora detenuti da Hamas. Netanyahu si è rivolto direttamente a loro, definendoli “eroi coraggiosi” e promettendo che Israele non riposerà finché non saranno riportati a casa.
Il premier ha aggiunto che il suo intervento era anche trasmesso ai telefoni dei civili di Gaza, sebbene non vi siano prove indipendenti a sostegno di questa affermazione.
Le critiche delle famiglie degli ostaggi
L’iniziativa non è stata accolta bene in patria. Familiari degli ostaggi hanno accusato Netanyahu di “abuso psicologico”, sostenendo che qualsiasi discorso non accompagnato da un concreto accordo di rilascio non fa che aggravare la sofferenza dei loro cari. Alcuni parenti hanno persino chiesto che fossero trasmesse le loro voci personali, invece di un messaggio politico.
La promessa di eliminare Hamas
Nel cuore del suo discorso, Netanyahu ha ribadito la volontà di “finire il lavoro” contro Hamas. Ha dichiarato che i resti del movimento sono asserragliati a Gaza City, pronti a ripetere le atrocità del 7 ottobre 2023.
“Israele deve terminare il lavoro, e lo faremo il più velocemente possibile”, ha affermato, richiamando più volte il massacro del 7 ottobre, definito come “il peggior attacco contro gli ebrei dalla Shoah”. Sul suo abito, il premier portava un QR code che rimandava a un sito dedicato a documentare gli eventi di quel giorno. (Il giornalista Marco Damilano nella sua trasmissione Il cavallo e la torre ha definito il QR code con le immagini dei massasci di Hamas del 7 ottobre un “pataccone”. Il link del sito è visibile solo al di fuori di Israele per rispetto alle vittime e alle famiglie. Attenzione: immagini sconvolgenti ndr).
Iran, Hezbollah e il bilancio della guerra
Netanyahu ha anche elencato i successi militari di Israele nell’ultimo anno: “Abbiamo colpito gli Houthi, distrutto gran parte della macchina di Hamas e inflitto duri colpi a Hezbollah”. Ha ricordato l’episodio dei “cercapersone esplosivi” in Libano, che hanno ucciso 37 persone e ferito quasi 3.000, sottolineando: “Abbiamo mandato un messaggio chiaro a Hezbollah”.
Soprattutto, il premier ha insistito sul fatto che Israele avrebbe “devastato i programmi nucleari e missilistici dell’Iran”, presentando questa come la vittoria più importante ottenuta nel decennio.
La tensione con gli Stati Uniti
Il discorso a New York precede un appuntamento cruciale: il vertice con il presidente statunitense Donald Trump, previsto per lunedì. L’incontro avviene in un momento di frizione, poiché Trump ha recentemente dichiarato di voler bloccare ogni tentativo di annessione della Cisgiordania da parte di Israele, mentre Washington spinge per un nuovo piano di pace discusso con i leader arabi.
Hamas rivendica il 7 ottobre come “momento d’oro”
Parallelamente, un alto funzionario di Hamas ha difeso gli attacchi del 7 ottobre in un’intervista alla CNN, definendoli un “momento d’oro per la causa palestinese”, nonostante le decine di migliaia di morti a Gaza. Le sue parole hanno ulteriormente polarizzato il contesto in cui Netanyahu ha parlato, acuendo la distanza tra le narrative israeliana e palestinese.
Un discorso simbolico e divisivo
Il discorso di Netanyahu all‘ONU ha mostrato due facce: da un lato il tentativo di parlare agli ostaggi e ai cittadini israeliani, rafforzando l’immagine di un leader inflessibile; dall’altro, la condanna internazionale crescente per l’offensiva a Gaza e per i metodi impiegati.
La fuga dei delegati dall’assemblea resterà probabilmente l’immagine più simbolica di questo intervento, testimoniando quanto Israele sia oggi isolato sulla scena diplomatica, anche mentre ribadisce la volontà di non arretrare di fronte ad Hamas e ai suoi alleati regionali.