di Marina Gersony
Leone XIV ha trasformato un viaggio storico in un gesto di diplomazia e responsabilità morale. Sul Medio Oriente ha parlato per chi non viene ascoltato, ribadendo l’urgenza della soluzione dei due Stati e il rispetto del dolore umano. Già a settembre aveva affrontato con cautela termini come “genocidio”, dimostrando prudenza senza semplificazioni. Un esempio di mediazione concreta in un Medio Oriente lacerato, da leggere ben oltre le immagini. (Foto: @Vaticanmedia).
Quando Papa Leone XIV ha compiuto, dal 27 novembre al 2 dicembre scorsi il suo primo viaggio apostolico all’estero – Turchia e poi Libano – non è stato un semplice esercizio di protocollo. È stato un atto politico pronunciato in un tempo in cui il Medio Oriente è lacerato e l’Occidente fatica a mantenere un equilibrio morale. È sul nodo più sensibile, quello israelo-palestinese, che il viaggio va letto fin dall’inizio: è lì che la voce del Pontefice ha cercato di inserirsi come mediazione urgente, in un clima globale segnato da polarizzazioni identitarie e dal riemergere dell’antisemitismo in molte società occidentali.
VIDEO Momenti salienti del viaggio apostolico di Papa Leone XIV in Turchia e Libano https://www.youtube.com/watch?v=vFcj3lbQx8A&t=4s
La Santa Sede sostiene da anni la soluzione dei due Stati come unica via per spezzare il ciclo di violenza. Leone XIV l’ha ribadito con una nettezza che, nel dibattito internazionale, suona più politica che pastorale. Una posizione che, secondo le intenzioni manifestate, non vuole sottrarre nulla alla sicurezza di Israele, ma che chiede di riconoscere il dolore umano che attraversa Gaza e la regione. Il Papa ha parlato di «giustizia per tutti» durante il viaggio, insistendo sul fatto che senza un equilibrio realistico tra diritti e sicurezza non esiste pace.
Prima di entrare nelle tappe specifiche, vale la pena ricordare che questo viaggio voleva far dialogare realtà oggi contrapposte: non solo territori, ma narrazioni e memorie in conflitto.
Su questo sfondo si colloca l’itinerario in Turchia e in Libano. Vatican News racconta le tappe, ma il significato va oltre la cronaca: Ankara, Istanbul, Beirut. Una triangolazione pensata per parlare a mondi che si guardano con sospetto, senza alimentare tensioni. Sul volo di ritorno dal Libano, Leone XIV ha spiegato la logica di fondo della missione aprendo un dibattito: «Il nostro lavoro non è pubblico, è un po’ dietro le quinte […] per convincere le parti a lasciare le armi e venire al tavolo del dialogo». Un modo diplomatico per dire che, mentre gli Stati alzano muri, la Santa Sede tenta di ricucire ciò che resta dei ponti.
Israele, due popoli due Stati, la diaspora, l’equilibrio delicato
A proposito di Israele, il Pontefice richiama il ruolo che la Turchia potrebbe avere nel sostenere la soluzione dei due Stati e insiste sulla via negoziale: «La Santa Sede già da diversi anni pubblicamente appoggia la proposta di una soluzione di due Stati. Sappiamo tutti che in questo momento Israele non accetta quella soluzione, ma la consideriamo l’unica che possa offrire una via d’uscita al conflitto che continuamente vivono».
Per Israele – e per molti nella diaspora ebraica – la visita assume così un significato complesso: non una condanna, non un sostegno incondizionato, ma un messaggio che richiede lettura prudente. La diplomazia vaticana ha scelto un profilo sobrio, evitando simboli interpretabili come endorsement politico: nessuna tappa nel sud del Libano, nessun eccesso mediatico. Solo dialogo, liturgia, gesti di rispetto.
La tragedia di Gaza, le paure in Europa e la parola “genocidio”
Il viaggio del Santo Padre non è stato solo una celebrazione: ha affrontato anche le ferite più profonde. Come quelle di Gaza, la fame dei bambini, la guerra e la sofferenza dei civili. Ma il viaggio ha toccato anche le paure presenti in Europa, dove cresce la preoccupazione per l’identità cristiana di fronte all’Islam: «So che in Europa sono presenti tante paure […] e in questo senso vorrei dire che tutti noi abbiamo bisogno di lavorare insieme […] Dovremmo forse avere un po’ meno paura e guardare ai modi di promuovere un dialogo autentico e il rispetto […]».
Non vanno dimenticate, in questo contesto, le dichiarazioni ribadite dal Pontefice nel libro-intervista pubblicato in Perù a firma di Elise Ann Allen nel settembre 2025 sulla parola “genocidio”. Leone XIV aveva dichiarato a proposito: «La parola “genocidio” viene usata sempre più spesso. Ufficialmente la Santa Sede non ritiene che si possa fare alcuna dichiarazione in merito in questo momento. C’è una definizione molto tecnica, ma molte persone sollevano la questione».
Parole che non cedono a semplificazioni anche quando, sempre in un’intervista durante il volo da Istanbul a Beirut, ha inviato alla comunità internazionale un segnale chiaro: «Noi siamo amici anche di Israele e cerchiamo con le due parti di essere una voce mediatrice che possa aiutare ad avvicinarci a una soluzione con giustizia per tutti».
Per chi sostiene Israele, queste parole non negano la necessità di difendere lo Stato, ma ricordano che nessuna difesa può prescindere dalla consapevolezza del dolore umano. Quello del Pontefice, di fatto, suona come un appello a un equilibrio difficile, l’unico tuttavia capace di trasformare l’emergenza in un percorso politico sostenibile.
Nicea come memoria politica, non archeologia spirituale
Solo nella seconda parte del viaggio emerge la dimensione più simbolica: İznik, l’antica Nicea, la culla del Credo che unisce miliardi di cristiani da 1700 anni. È lì che Leone XIV ha pronunciato parole che, più che rituali, suonano come un richiamo alle Chiese affinché non si rifugino nel passato mentre il presente brucia. L’unità cristiana, evocata davanti a patriarchi e vescovi, non è un esercizio liturgico: è un messaggio rivolto anche ai poteri politici del Medio Oriente, ai quali ricorda che la religione può essere strumento di pace o di fanatismo, a seconda di chi la usa e come.
La missione che unisce Turchia e Libano – la prima nella storia dei viaggi papali – è un gesto che prova a parlare a tutte le fratture: tra cristiani, tra musulmani, tra ebrei, tra popoli, tra Stati. E lo fa evitando provocazioni: nessuna tappa interpretabile come sfida a Israele, nessun gesto esportabile come arma retorica.
Il Papa, cittadino del mondo e missionario del secolo, ha offerto un metodo – dialogo, memoria, responsabilità. Il suo viaggio non risolve certo conflitti, ma scuote la rassegnazione: parla a chi non ascolta e dimostra che, nel Medio Oriente, ogni parola pesa.



