Abu Mazen

Abu Mazen avrebbe celebrato il 7 ottobre: la leadership palestinese è davvero “moderata”?

Mondo

di Davide Cucciati
Il giornalista israeliano Amit Segal ha rivelato che “secondo un estratto di un’intervista pubblicato da Zvi Yehezkely”, Mahmoud Abbas avrebbe definito il 7 ottobre “il giorno più grande della storia palestinese davanti a decine di persone”. E mentre la popolarità del leader è al minimo fra i suoi, è sempre più reale il rischio che definire l’AP  il partner moderato a cui affidare il “dopo” Gaza si riveli un grande abbaglio.

In un lungo intervento pubblicato su X del 16 dicembre 2025, il giornalista israeliano Amit Segal ha rilanciato un contenuto che ha riaperto il dibattito sul ruolo dell’Autorità Palestinese. “Il “partner” di Israele per la pace sembra aver celebrato il 7 ottobre”, ha scritto Segal, precisando che, “secondo un estratto di un’intervista pubblicato da Zvi Yehezkely”, Mahmoud Abbas avrebbe parlato del pogrom del 7 ottobre in termini celebrativi. Abu Mazen avrebbe definito il 7 ottobre “il giorno più grande della storia palestinese”. Non una frase pronunciata in privato ma detta “davanti a decine di persone”.

La condanna delle violenze di Hamas sarebbe arrivata solo quasi due anni dopo e nel contesto di pressioni politiche legate alla spinta franco-saudita sulla statualità palestinese, con un ruolo rilevante anche degli Stati Uniti. La conclusione di Segal è netta e volutamente provocatoria: se per ottenere una condanna della violenza serve più fatica che strappare un dente, allora chiamare “moderato” l’interlocutore non descrive la realtà, ma una necessità diplomatica.

 

I dati PSR, cosa pensa oggi la società palestinese

Questo quadro non resta isolato se si guarda all’opinione pubblica palestinese. Come illustrato in un articolo pubblicato queste pagine il 3 novembre 2025, basato sull’ultima rilevazione del Palestinian Center for Policy and Survey Research, la società palestinese appare frammentata e polarizzata, ma con alcune linee di fondo molto chiare. Infatti, il sostegno all’attacco del 7 ottobre resta maggioritario: oltre il 50% degli intervistati favorevoli, in lieve aumento rispetto alla primavera 2025, alto in Giudea e Samaria (West Bank) nonché di nuovo in crescita anche a Gaza. Il disarmo di Hamas come via per porre fine al conflitto è rifiutato dall’85% degli intervistati in West Bank e dal 55% a Gaza. Questo induce a ipotizzare che le bande rivali di Hamas abbiano un consenso al momento limitato. Del resto, anche Abu Shabab, leader di una gang che a lungo è stata narrata come seria rivale di Hamas, è già deceduto senza esser riuscito a cambiare gli equilibri nella Striscia.

Un dato particolarmente significativo riguarda la percezione dei fatti del 7 ottobre: la maggioranza assoluta degli intervistati non crede che Hamas abbia commesso le atrocità riportate dai media internazionali.

Sul piano della leadership, il distacco è altrettanto marcato. Nei sondaggi presidenziali Abbas si ferma attorno al 13%, mentre Marwan Barghouti emerge come il leader più popolare.

Barghouti, il “Mandela palestinese” e la continuità con la violenza

Nello stesso intervento su X, Segal allarga lo sguardo proprio a Marwan Barghouti, spesso presentato nel dibattito occidentale come il possibile volto futuro della leadership palestinese, talvolta con l’etichetta del “Mandela palestinese”, attribuitagli anche da centinaia di personalità occidentali. Il giornalista israeliano osserva che Barghouti ha esortato a “non restare semplici testimoni, ma a diventare soldati attivi nella battaglia decisiva”, invitando il movimento giovanile di Fatah a trasformare l’anniversario della prima intifada “in un punto di svolta e nell’inizio dell’escalation della lotta contro il nemico israeliano, usando tutti gli strumenti e le capacità a disposizione”.

Il precedente ignorato, l’intervista a Repubblica del novembre 2023

Questo scollamento tra narrazione internazionale e realtà interna non emerge solo oggi. Già nei giorni immediatamente successivi al 7 ottobre, un’intervista pubblicata da Repubblica nel novembre 2023 offriva una chiave di lettura sorprendentemente coerente con il quadro attuale. In quell’occasione Fadwa Barghouti, moglie di Marwan Barghouti, spiegava che Abu Mazen non rappresentava più i palestinesi, pur restando formalmente il presidente eletto, ricordando che l’ultima elezione risalisse a quasi vent’anni prima. La dichiarazione di Abbas secondo cui “Hamas non rappresenta i palestinesi” aveva provocato una chiamata all’insubordinazione da Fatah stessa. Nei cortei e sui muri compariva lo slogan della Primavera araba, “giù il regime”, con un obiettivo che, sottolineava, non era solo Israele.

Nella stessa intervista, Hamas veniva descritto non solo come un’organizzazione politica e militare, ma come un’idea, un sinonimo di resistenza e azione. In quel contesto Fadwa Barghouti formulava anche una previsione che, riletta oggi, colpisce per lucidità: Israele avrebbe eliminato Yahya Sinwar, per dichiarare Hamas decapitata, lasciando però intatto il problema strutturale. Sinwar è stato effettivamente ucciso ma la domanda posta allora resta aperta.

Lo spettro della “konzeptzia”

Questo dibattito richiama un concetto che in Israele ha un peso storico preciso: la “konzeptzia”. Prima della guerra dello Yom Kippur, fu la convinzione che Egitto e Siria non avrebbero attaccato senza determinate condizioni a paralizzare l’analisi dell’intelligence. Dopo il 7 ottobre, la stessa parola è tornata per descrivere l’idea che Hamas fosse interessato soprattutto a consolidare la propria presa su Gaza e a ottenere concessioni economiche più che a pianificare degli attacchi. Oggi il rischio è di cadere in una “konzeptzia” diversa ma speculare, non militare bensì politica: l’assunzione che l’Autorità Palestinese sia per definizione il partner moderato a cui affidare il “dopo”, indipendentemente dal linguaggio che usa, dal consenso reale di cui gode e dal rapporto irrisolto con la violenza. Cambia l’oggetto della convinzione ma resta lo stesso errore di fondo: scambiare una necessità strategica per una realtà dimostrata.

La tentazione è anche un’altra: ridurre Gaza a un dossier di ricostruzione trattato con un lessico da valorizzazione immobiliare. Le dichiarazioni pubbliche di figure dell’area Trump, a partire dall’idea del “waterfront” come asset e dalla retorica della “Riviera”, mostrano una mentalità da real estate applicata a un teatro umano e politico. Su questo sfondo, i piani internazionali di stabilizzazione restano nebulosi: la Lega Araba è chiamata a dar seguito ai pur importanti annunci fatti nei mesi precedenti. Al momento, la composizione dell’International Stabilization Force non è nota e il primo ministro Netanyahu ha espresso scetticismo sulla capacità di una forza multinazionale di disarmare Hamas.