Sergio Della Pergola

Stampa e propaganda quotidiana in Italia: l’intervento di Sergio Della Pergola all’evento Ucei al Cnel

Italia

di Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme
Pubblichiamo l’intervento integrale del professore al convegno intitolato “La storia stravolta e il futuro da costruire” organizzato dall’Unione delle comunità ebraiche italiane al Cnel il 12 ottobre.

 

Il 7 ottobre 2023 è stato tentato uno Staticidio nei confronti di Israele. Il neologismo Staticidio comprende tre elementi: un grande piano strategico-ideologico, un dettagliato piano operativo, e un’ampia partecipazione popolare. Gli obiettivi sono due: il genocidio della popolazione esistente in un Paese, e la distruzione delle strutture politiche e logistiche. Il tentato Staticidio di Israele ha raggiunto notevoli esiti iniziali, ma è stato sventato, anche se non completamente, con molte difficoltà, gravi perdite militari e civili, e grande eroismo. Lo Staticidio di Israele sarebbe riuscito se le diverse forze nemiche avessero meglio coordinato il loro sforzo, ma ciò non è avvenuto per divergenze interne tra i rispettivi movimenti islamici. O chissà: forse per un Miracolo.

Il prezzo pagato da Israele: 2.000 morti, una metà dei quali civili, 30.000 feriti, migliaia dei quali gravemente mutilati per sempre nel fisico e soprattutto nell’anima. 251 i deportati, massacrati uno a uno e ridotti a scheletri umani. Oltre 37.500 i missili lanciati contro Israele, ognuno dei quali avrebbe dovuto idealmente causare almeno 100 vittime. Se si parla di proporzionalità, nell’intenzione i morti erano 3.700.000. L’ultimativa arma nucleare era prossima alla fase operativa, dichiaratamente per essere usata. Le batterie anti-missilistiche e i rifugi di Israele hanno limitato i danni. Ma la guerra per la sopravvivenza di Israele non è conclusa.

Israele combatte innanzitutto sul fronte della guerra guerreggiata, e in proposito applaudiamo, con cautela, i possibili esiti dell’iniziativa del Presidente Trump. Ma esistono altri due fronti sui quali si deciderà il futuro d’Israele, e tramite esso, inevitabilmente anche il futuro degli ebrei nel mondo. E anche il futuro della civiltà occidentale, del cui destino gli ebrei costituiscono una cartina di tornasole.

Sul primo fronte – quello politico-mediatico internazionale – Israele ha fin qui nettamente perso la battaglia. Il 7 ottobre 2023, Israele e il popolo ebraico sono stati sconfitti, non solamente sul terreno, ma soprattutto sulla strategia esistenziale che comprende in misura decisiva il soft-power – quei fattori qualitativi che assieme all’uso della forza producono il risultato finale. La massa dei nemici include sia i partecipanti armati al progetto genocida di Hamas, sia i volonterosi fiancheggiatori in loco e in tutto il mondo.

Negli ultimi due anni, e in particolare negli ultimi mesi, assistiamo a una spirale di violenza verbale e anche fisica contro Israele e contro gli ebrei, sottilmente simbolica ma anche grossolanamente esplicita, senza precedenti a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Toni e contenuti rammentano quelli dei regimi nazi-fascisti negli anni ’30 del secolo scorso. L’ondata attuale supera perfino quella che esplose nell’autunno del 1982, in occasione della guerra in Libano, e che in Italia portò alla tragica uccisione del bambino Stefano Gaj Taché. Queste impressioni vanno corroborate da un’analisi empirica.

Con un gruppo di collaboratrici – Barbara Gerber Sasson, Gabriella Moise, Manuela Cohen –, abbiamo condotto una prima, sommaria esplorazione dei contenuti della stampa quotidiana in Italia nel corso delle tre settimane dal 19 settembre al 9 ottobre 2025. Abbiamo esaminato migliaia di pagine di quotidiani. I contenuti di 11 fra i principali quotidiani nazionali (5 inidcizzati ogni giorno, 6 in parte) ci illuminano sul livello di evidenza attribuito al conflitto Gaza-Israele e sui contenuti dei messaggi trasmessi, soprattutto se paragonati al conflitto Russia-Ucraina.

Il numero di pagine dedicate al conflitto Gaza-Israele si avvicina a una media di 7, e spesso supera una media di 10 pagine quotidiane, fino a casi estremi di quasi 20. Si tratta di un livello di copertura che si può ben definire patologico. Le molte pagine dedicate a Gaza-Israele superano quelle dedicate al conflitto Russia-Ucraina in un rapporto di 4 volte a 1.

Le scelte editoriali sono in evidente crescita quotidiana, e reagiscono a momenti specifici, come le proposte per il riconoscimento dello stato palestinese, l’orgasmo prodotto dalla sgangherata Armada portatrice di ben scarsi aiuti umanitari, e infine la proposta Trump e la trattativa sulla conclusione del conflitto. L’ipertrofia della copertura quotidiana di Israele spicca in confronto all’attenzione a fenomeni inquietanti ben più vicini a casa, come l’occupazione russa di territori equivalenti a tre volte lo Stato d’Israele, le stragi e i rapimenti di civili, l’oscuramento delle reti di comunicazione nei principali aeroporti europei, la presenza di velivoli russi nei cieli dell’Unione Europea, e la “guerra ibrida” secondo Ursula Von der Leyen.

Emerge una chiara tipologia della mobilitazione delle diverse testate su una linea marcatamente anti-israeliana. Il Fatto Quotidiano e il manifesto guidano la linea negazionista, con frequenti testi e vignette di classico stampo Difesa della Razza-Der Stürmer. Alla testa del gruppo dei grandi quotidiani troviamo La Stampa di Torino, dove le voci di Mancuso, Foa e Pappé, col pugnale sguainato, propongono un’esplicita demonizzazione di Israele e degli ebrei, e un’implicita mobilitazione alla violenza e alla soppressione. La performance della Repubblica e del Corriere della Sera segue a ruota, imitata da vari altri quotidiani di opinione. Libero e Il Tempo dedicano, non tanto maggiore rilievo alla crisi a Gaza, quanto minore spazio all’Ucraina e alla Russia. Il Sole 24 Ore è più concentrato su altre problematiche ma non diverso nei contenuti. Due eccezioni sono Il Riformista e Il Foglio, su posizioni pro-israeliane.

Un’indagine sulle reti televisive assegnerebbe al Canale 9 il primo posto della vergognosa quotidiana aggressione, seguito da La 7, da Rai News 24 e Rai 3. Sulle onde radiofoniche, la Rai è ormai nettamente schierata. Oggi i siti internet e le reti sociali, è vero, svolgono un compito centrale e, specie fra i giovani, sostitutivo nell’informazione e nella formazione dell’opinione pubblica. Ma i canali convenzionali stampati e elettronici restano lo specchio di una società.

I risultati di questa campagna di esasperata emergenza sono evidenti sul piano della narrativa. Un primo pacchiano indicatore è il quasi unanime riferimento dei media al governo di Israele come “Tel Aviv”. È ben noto che i centri di potere e di rappresentazione simbolica: il Presidente della Repubblica, la Corte Suprema, il Parlamento, il Governo, il Museo Israel, la Biblioteca Nazionale, la tomba di Teodoro Herzl, e il Memoriale della Shoah sono tutti situati a Gerusalemme. La rimozione forzata della realtà e il pensiero unico sostitutivo sono degni non di una stampa dignitosa e articolata, ma di una campagna concertata di propaganda – quasi di regime. La magnificazione di un’immagine distorta dell’identità di Israele e del sottostante mondo ebraico si accompagna all’amnesia e alla perdita della propria identità di Europei, e specificamente, di Italiani.

Una grossolana manipolazione a senso unico dell’opinione pubblica riguarda le statistiche sul numero dei morti a Gaza. Nessuno può negare che a Gaza sia in corso una gigantesca tragedia umana, anche se le persone oneste dovrebbero aggiungere: iniziata a causa del delirante piano di Hamas di distruggere lo Stato d’Israele. Ma è senza precedenti lo spettacolo in cui tutti, dall’ONU ai media internazionali, recepiscono e ripetono acriticamente cifre manifestamente problematiche se non aberranti. Anche l’accademia è stata arruolata a sostegno di un unilateralismo ideologico, quasi mistico. Su Lancet, un tempo rivista rispettabile, sono apparsi diversi articoli inverosimili sul numero dei morti a Gaza. Con l’aiuto di contorte metodologie, invenzioni e distorsioni si è creato un apparato di citazioni monopoliste in una pubblicistica coinvolta in una vera epidemia.

In due miei articoli critici, apparsi sul quotidiano Haaretz, ho dimostrato che i numeri che circolano sulle vittime sono ampiamente inflazionati a causa delle dichiarazioni multiple del medesimo decesso da parte di più di un congiunto. I numeri diffusi dall’unica fonte esistente, il Ministero della Sanità di Hamas – fonte politica e non tecnica, riflettono le dichiarazioni di morte, non i corpi effettivamente transitati all’obitorio. Pur tenendo conto delle vittime ancora sepolte sotto le macerie, la differenza fra i numeri di Hamas e la triste realtà ammonta a decine di migliaia. Nessuna delle vittime, poi, risulterebbe essere un combattente armato di Hamas, che in realtà sembra aver perso 20-25.000 uomini. È dichiarato morto come “bambino” chiunque abbia meno di 18 anni, anche se armato di kalashnikov. Nessuno è morto di morte naturale. È morta l’integrità.

Il conflitto viene strumentalizzato anche in funzione di interessi politici locali, in Italia e altrove. Fa comodo a tutti individuare un diversivo, un falso obiettivo, un escapismo, su cui polarizzare l’attenzione del pubblico. Il capro espiatorio è Israele, sono gli ebrei sospetti di simpatie filo-israeliane, e i loro sostenitori. In occasione delle odierne elezioni regionali in Toscana, è più facile mobilitare la folla sui fatti di Gaza che non sul sottosviluppo e i ritardi storici, per cui sul versante tirrenico della regione non esiste una strada a doppia corsia sui 60 km. da Pescia Fiorentina a Grosseto.

La lettura dei media denuncia un profondo degrado, un desolante effetto gregge, un’eclisse della ragione, un crollo di civiltà. Vediamo grandi quotidiani nazionali trasformati in bollettini aziendali, importanti manifestazioni culturali ridotte a avanspettacolo, antiche università trasformate in dopolavoro, la scuola tornata fabbrica di Balilla in divisa con stendardi, una squadra di ciclisti con la scritta Israel sulle maglie espulsa dal Giro dell’Emilia, Molinari censurato e la Goracci elogiata, la CGIL di Landini regredita alla CGIL di Lama che accompagnò la deposizione di una bara davanti alla Sinagoga sul Lungotevere due mesi prima del sanguinario attentato di Sheminí Azzèret. L’uccisione di due ebrei davanti alla sinagoga di Manchester, quest’ultimo giorno di Kippùr, dimostra la continuità e l’osmosi di queste azioni delinquenti di istigazione, e la risposta dei più esaltati al richiamo. A 60 anni dalla Nostra Aetate, oltre alle vittime del terrorismo, sul terreno giace anche la salma del dialogo interreligioso tra il Vaticano e gli ebrei.

Non c’è da stupirsi allora di fronte alla reviviscenza dell’antisemitismo, fenomeno di lungo periodo, patologia di massa, talvolta sommerso, ma sempre pronto a riesplodere dove nelle piazze e nei pertugi siano riattivate le opportune esche. Ed ecco, tratta dalla cronaca, l’iconografia illustrativa. Da manuale.

La ricerca ha chiarito inequivocabilmente l’essenza dell’antisemitismo – che sarebbe più corretto chiamare anti-ebreismo, perché il termine antisemitismo è di per sé un termine antisemita. Chiaramente, i soli autorizzati a definire l’offesa sono le vittime e non i perpetratori. Altrimenti nessuno sarebbe antisemita. Ogni antisemita ha un migliore amico ebreo, o anche uno zio, o addirittura è ebreo egli stesso. Come potrebbe essere antisemita uno così? L’anti-ebreismo è percepito dalle vittime come una visione del mondo, un insieme di azioni e, in definitiva, un progetto coerente volto al raggiungimento di uno o più di tre obiettivi principali. Percepiti dalla base, sono tre assi fondamentali, dove, all’ebreo, viene negato:

  • come individuo – il diritto di godere dell’uguaglianza civile, sociale, culturale e politica come qualsiasi altro cittadino nella società di residenza;
  • come potenziale vittima e sopravvissuto a uno sterminio pianificato – il diritto di preservare e trasmettere la propria autentica memoria della distruzione del proprio popolo attraverso la Shoah;
  • come membro di un collettivo nazionale – il diritto a esercitare la sovranità politica attraverso uno Stato indipendente, Israele.

L’antisemitismo è la negazione di uno o più di questi tre assi di riferimento essenziali che sono anche tre diritti esistenziali non rinunciabili e non negoziabili.

La profonda interconnessione percepita tra Shoah, Israele e popolo ebraico rende il tentativo di escludere Israele dalla definizione dell’antisemitismo empiricamente insostenibile, irrilevante, e in realtà parte integrante di un disegno offensivo. Israele, e in particolare il suo governo, possono ovviamente essere oggetto di critiche legittime, come dimostra chiaramente l’intenso dissenso politico all’interno della stessa società israeliana. Non solo: l’esigenza degli ebrei alla sovranità politica in Israele non è in conflitto inerente con la legittima aspirazione alla medesima sovranità politica da parte di altri popoli – dove questa esista. l Palestinesi hanno diritto a un stato basato sul principio della convivenza civile. Oggi un ampio settore in Israele è disposto a una o più entità palestinesi autonome, purché vi sia una controparte che riconosca Israele come stato ebraico e possa controllare il terrorismo genocida. Questa è l’offerta. Se rifiutata, Israele difenderà la sua non rinunciabile sovranità contro ogni delirante progetto e opinione.

Il diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico non è in discussione e non è negoziabile. L’ordine internazionale stabilito negli anni dopo la seconda guerra mondiale, incluso lo Stato ebraico, e se vogliamo lo Stato Arabo, non può essere rimesso in causa. Da qui, un secondo fronte interno, dove – proprio per esprimere la propria identità ebraica e democratica – la società civile in Israele deve combattere le infiltrazioni di frange messianiche e fasciste con la stessa determinazione con cui combatte sugli altri fronti.

Dal 7 ottobre 2023, il governo di disunione nazionale in Israele ha perso il sostegno della maggioranza degli elettori, che invece hanno ancora fiducia nelle forze armate, in gran parte composte da civili. Gli ebrei della diaspora, e quelli italiani in particolare, hanno non solo il diritto, ma l’assoluto dovere di esigere che il popolo di Israele abbia alla propria guida un governo diverso, maggiormente responsabile, funzionante e rappresentativo rispetto a quello attuale dominato da Benyamin Netanyahu.

Il futuro di Israele è il ritorno alla vita. Certo, di fronte all’attuale baratro identitario, nulla sappiamo sul futuro dell’Europa.