«Impariamo a guardarci con gli occhi del nemico: solo così fiorirà la pace»

Italia

di Fiona Diwan, foto Efrat Saar e Nir Keidar

Fatma ha 10 anni, vive a Gaza e, durante il conflitto dello scorso novembre, una bomba ha colpito la sua casa. Fatma è rimasta ferita al braccio e alla mano, rischiando di perdere l’intero arto. Trasportata d’urgenza all’Ospedale Shiba di Tel Aviv, le hanno riattaccato la mano e due dita, delle cinque che rischiava di perdere.

Yussuf è un altro ragazzino palestinese, della Cisgiordania. Ha 11 anni e aspetta di andare alla partita di calcio: in fondo, non gli dispiace quella squadra mista, ci sono i suoi amici di Betlemme e quei ragazzini israeliani, “alcuni non sono male, sono simpatici”, dice lui, e con loro condivide il tifo per il Barcellona e la passione per i Simpson’s. Yussuf, all’inizio, non ne voleva sapere di partecipare a un torneo annuale di calcio con il nemico. Temeva le reazioni. Ma i genitori hanno insistito e così lui ha accettato.

Ben Kelmer e Eman Mohammed sono due fotoreporter, il primo di Tel Aviv, la seconda di Gaza. Entrambi amano raccontare la realtà, anche quella più brutale. Entrambi hanno scattato foto degli ultimi conflitti. Le loro immagini sono state selezionate dalla stessa giuria, quella del World Press Photo, l’istituzione fotografica più prestigiosa del mondo. E oggi sono in mostra, l’una accanto all’altra, a Tel Aviv.

Queste tre storie hanno in comune una cosa: l’esperienza del contatto diretto, gomito a gomito, la vicinanza reale con il corpo del “nemico”. Che in questo modo acquisisce un volto, una voce, diventa concreto e simile, non più un fantasma da demonizzare e odiare. Ma queste tre situazioni hanno un’altra cosa in comune: il loro legame con il Centro Peres per la Pace che ha sede a Jaffa, -in un palazzo progettato gratuitamente da Massimiliano Fuksas per Shimon Peres-, Centro che ha come scopo quello di gettare ponti tra le parti avverse e creare un terreno di conoscenza reciproca tra israeliani e palestinesi; cioè, quello di costruire occasioni di dialogo “dal basso”, mettere in comunicazione le due parti del conflitto al livello della gente comune e del vissuto quotidiano E rompere la logica dei check-point e del muro. Ma anche andare oltre lo schema dei minuetti tra diplomatici guardando oltre la mistica stereotipata dei “sanguinari shahid kamikaze” da una parte, e dello “spietato soldato di Tsahal”, dall’altra. Perchè mettere la gente faccia a faccia, portarla a fare delle cose insieme, è l’unico modo per rompere le diffidenze, spezzare le paure e insegnare a guardarsi l’un l’altro “con gli occhi del nemico”, come scriveva David Grossman. Frutto della volontà privata e individuale dell’attuale Presidente di Israele, nato nel 1996, quando ancora Peres non era ancora il primo cittadino dello Stato, il Centro si vuole al di sopra e al di fuori delle logiche politiche.

NIENTE POLITICA

Nel caso di Fatma, il Centro Peres per la Pace -che in ambito medico lavora solo sulle massime urgenze sanitarie-, ha ottenuto i permessi, ha provveduto a far operare la bambina, sveltito l’iter burocratico, coinvolto i medici palestinesi, reso possibile alla madre -una musulmana velata-, di accompagnare la figlia; e infine si è accollato tutte le spese mediche del caso. Nella vicenda di Yussuf, il Centro Peres ha organizzato (e lo fa ogni anno per il calcio, il basket e altri sport di squadra), il torneo per ragazzini tra i 7 e i 12 anni, squadre miste di piccoli israeliani e palestinesi che giocano fianco a fianco, si cambiano negli stessi spogliatoi e finiscono per scambiarsi figurine e videogiochi, mentre le madri stringono rapporti le une con le altre sugli spalti, nell’attesa che finisca la partita. Idem per la mostra fotografica che ogni anno viene allestita con i lavori dei fotoreporter più talentuosi dei due schieramenti, selezionati da una giuria composta dal gotha della fotografia internazionale, dall’agenzia Magnum in giù.

Parlarsi oggi per far fiorire la pace di domani, recita lo slogan del Centro: «proprio per avere libertà di manovra, non vogliamo nessun aiuto dai governi, niente politica, ci sosteniamo solo con donazioni. In settembre organizzeremo un grande evento in Italia per meglio far conoscere il nostro lavoro», spiega Daniel Treves di Torino, coordinatore per l’Italia della onlus Centro Peres per la Pace, appena “sbarcata” qui da noi con finalità di comunicazione, fund raising e di farne conoscere la realtà agli italiani.

«Malgrado le nostre differenze, noi possiamo costruire la pace, non solo negoziarla. Possiamo costruire il nostro proprio contesto e non solo essere vittime del contesto che abbiamo ricevuto», ripete come un mantra, da più quindi anni, lo stesso Shimon Peres. Proprio per questo, il Centro punta sui giovani, loro saranno i veri costruttori della pace di domani. «All’inizio avevo paura degli israeliani, specie dopo quello che avevano fatto alla nostra casa. Ma dopo che hanno curato mio figlio non sapevo più come rivolgermi a loro. Sono stata a lungo nei loro ospedali, e ho capito che questi israeliani erano molto diversi dai soldati che erano entrati nelle nostre case», dice Nura, di Gaza, il cui figlio, malato grave, è stato curato attraverso  il programma Saving Children del Centro Peres.

«Non abbiamo bisogno di altri cimiteri, di altri morti. La pace si fa col nemico, mica con gli amici. E, prima o poi, da quella cruna dell’ago dovremo passare, non c’è scelta. Allora tanto vale iniziare ora», dice Amin, un agricoltore israeliano.

Numeri e realtà

Ecco un po’ di dati, a partire dai 60 mila ragazzini israeliani e palestinesi che hanno partecipato ai programmi di educazione comune, dal teatro alla visual art; fino ai 12 mila bambini arabi ed ebrei coinvolti in più di 600 attività sportive congiunte. Sono stati invece otto mila i bambini palestinesi che hanno ricevuto trattamenti medici negli ospedali israeliani e 120 i medici palestinesi che hanno completato gli studi di specializzazione negli ospedali di Eretz Israel. O ancora, il programma Fragole per la pace, più di due milioni e mezzo di cespugli di fragole piantati su 260 dunam di terra in Cisgiordania e a Gaza, unendo così le competenze agricole e le capacità di business di entrambi i popoli.

FUORI DAL CORO

Una realtà in espansione, a dispetto degli scetticismi generalizzati. Perchè, obiettano gli israeliani, dovrei curare la mano che poi metterà una bomba in casa mia? Perchè dobbiamo aiutare i palestinesi dopo che hanno rifiutato tutte le notre profferte di accordo?, rincarano altri. Dal canto loro, i palestinesi si chiedono anch’essi, perchè debbano fraternizzare con gli ebrei, rischiando di essere emarginati dai loro, di essere tacciati di traditori e collaborazionisti, se non peggio? E infine, ancora, c’è la sinistra occidentale, spesso prevenuta e malfidente, che accusa di carità pelosa il Centro Peres, con azioni umanitarie che, a sentir loro, servirebbero solo a lavarsi la coscienza. Ma Shimon Peres e i 30 ragazzi, -arabi, europei, americani, israeliani che lavorano per il Centro-, fanno spallucce. Se non sono io per la pace, chi sarà al posto mio? E se non ora, quando?, sembrano dire in coro. A costo di predicare nel deserto, sono convinti che il loro impegno darà i suoi frutti a tempo debito, quando gli eventi saranno maturi. Il nostro è un raccolto a lungo termine, dicono. Perchè sanno che coltivare la speranza, cantare fuori dal coro dei falchi e delle cornacchie, in questo fazzoletto di mondo, è un atto di fede quanto pregare al Kotel o a Al Aqsa.

Ma facciamo un po’ di storia. L’idea di avviare un dialogo diretto e non politico tra i due fronti nasce nel 1996, tra un gruppo di intellettuali israeliani tra cui non c’è solo Peres ma anche la scrittrice Manuela Dviri, Ron Pundak (l’artefice degli accordi di Oslo) e altri numerose teste pensanti di Israele. Nasce così questa onlus, no profit, organizzata in quattro dipartimenti, ciascuno dei quali porta avanti un progetto di spicco. Niente bla bla, solo il fare conta, ribadisce Shimon Peres. E così nasce, nel 2003, Saving Children, diretto da Manuela Dviri, che cura i bambini gravemente malati in Cisgiordania e a Gaza provvedendo a farli operare nelle strutture ospedaliere israeliane. E, sempre all’interno del dipartimento di Medicina, si promuove per i giovani medici palestinesi appena laureati, la possibilità di conseguire la specializzazione in Israele, offrendo loro training di alto livello, cosa che contribuirà a innalzare la qualità della vita nei Territori. Il presupposto è che se i palestinesi stanno bene a casa loro, allora potremo davvero convivere gli uni accanto agli altri.

Sport, arte, medicina…

Anche per gli altri tre dipartimenti del Centro Peres, -Sport, Arte e Business-, il discorso è analogo. Poche parole, molti fatti. In primis, i tornei  annuali di calcio, basket, cricket, volley…, organizzati tra ragazzini, forse il progetto che ha portato a casa risultati di maggior successo, contribuendo a creare legami e amicizie altrimenti impensabili tra famiglie arabe ed ebraiche. Due volte la settimana per tirar calci a un pallone e imparare a parlarsi, a guardarsi, a rotolarsi sul campo da gioco insieme, con la freschezza che solo l’infanzia sa offrire. «E ora partiranno anche i tornei femminili. Lo sport è un veicolo importante per imparare a parlarsi, forse il migliore che c’è. Ed è proprio nello sport che vediamo in azione il miracolo, ogni volta che questi ragazzi si incontrano», spiega Rebecca Treves, 24 anni, di Torino, olà hadashà che oggi lavora al Centro, dopo sei mesi di volontariato. E prosegue: «Guardare questi bambini è incredibile: arrivano tesissimi, terrorizzati di trovarsi gli uni di fronte agli altri, pieni di astio, rancore e condizionamenti culturali. Bastano pochi incontri di calcio o basket e le cose si sciolgono. Ma attenzione: tutto ciò avviene solo con i palestinesi di Al Fatah, con quelli della Cisgiordania». L’impegno del Centro Peres prosegue poi con progetti per le scuole: «si agisce separatamente, in Israele e in Cisgiordania, mettendo in contatto virtualmente 350 ragazzi con un social network creato apposta (sponsorizzato dall’italiana ENI). L’Italia ci sostiene molto e abbiamo ricevuto donazioni anche dalla regione Toscana, Emilia Romagna e Umbria, grazie al lavoro straordinario di Manuela Dviri. C’è persino un gruppo formidabile di valdesi di Torino, che ci manda ogni anno un assegno per il progetto Saving children», un “comitato” che in accordo col Centro Peres, ha scelto di sostenere economicamente il settore della cura di bambini sordi mediante impianto cocleare, visto che in Pale stina la sordità costituisce una delle principali emergenze sanitarie, anche a causa dell’altissima percentuale di matrimoni tra consanguinei. Inoltre l’alto costo delle protesi e la necessità di seguire i bambini per periodi lunghi di monitoraggio ed educazione alla parola fanno sì che questo tipo di intervento sia tra i più costosi tra quelli sponsorizzati dal Centro Peres.

USARE LE RISORSE

E ancora: c’è il dipartimento Arte che con la sezione Local testimony e il Frames of Reality Project, mette in piedi, ogni anno, al Museo Eretz Israel di Tel Aviv il più prestigioso evento fotografico del Paese, talenti fotogiornalistici palestinesi e israeliani messi a confronto e selezionati da un guest curator e dalla giuria del World Press Photo.

L’ultimo dipartimento del Centro è infine quello di Business, che punta ad esempio a istruire i palestinesi su come meglio usare le risorse. Quelle idiriche prima di tutto, insegnando  come non sprecare l’acqua, come massimizzarne l’utilizzo per i raccolti, o varare addirittura progetti comuni agricoli. Perchè, alla fine, se non si semina, non si raccoglie.