Chiamami col tuo nome: quando l’antisionismo getta la maschera e attacca tutti gli ebrei

Italia

di Sofia Tranchina

Dalle aggressioni fisiche agli ebrei riconoscibili per strada fino ai divieti negli alberghi, dai graffiti con svastiche ai social che amplificano odio e slogan importati dal conflitto mediorientale: in Italia l’antiebraismo non si nasconde più dietro l’antisionismo, ma si esprime apertamente come colpa collettiva.

 

Per misurare quanto l’antisemitismo in Italia stia superando i freni del dopoguerra e trasformandosi sempre più in attacchi e discriminazioni concrete, basta un dato: per raccontare gli episodi registrati durante l’estate ho dovuto restringere il campo a quelli accaduti da metà luglio in poi — e neppure tutti. Altrimenti, l’elenco sarebbe diventato interminabile. È questa, oggi, la gravità della situazione.

Scorrendo le cronache delle ultime settimane, emerge una verità semplice e inquietante: agli ebrei viene attribuita una colpa collettiva. Poco importa quale, poco importa l’individuo. E non si tratta di “antisionismo”.

A dimostrarlo ci sono i due episodi gemelli di Venezia, l’ultimo avvenuto appena qualche giorno fa. In entrambi i casi, una coppia di turisti ebrei si godeva la notte salmastra passeggiando per le calli, senza nascondere kippah o altri simboli identitari. La normalità di una serata veneziana si è trasformata in paura nel momento in cui gruppi di aggressori hanno deciso di colpirli, soltanto perché riconoscibili come ebrei.

La prima aggressione risale all’8 agosto: due turisti americani sono stati insultati, spintonati, colpiti con sputi e bevande, minacciati di morte e persino attaccati con un cane aizzato contro di loro. Il marito è finito a terra, il telefono distrutto dai denti dell’animale; la moglie, incinta di cinque mesi, si proteggeva la pancia terrorizzata.

Il 7 settembre è accaduto di nuovo. Un’altra coppia, anch’essa chiaramente ebrea, è stata inseguita e accerchiata da una decina di uomini di origine magrebina al grido di “Free Palestine” e insulti antisemiti. Anche qui, dalle parole si è passati subito ai fatti: schiaffi, un cane aizzato contro di loro, una bottiglia di vetro che ha ferito la donna a una caviglia. Tra gli aggressori identificati, un tunisino residente a Modena e due uomini ora destinati al rimpatrio.

E non è solo Venezia. Il 27 luglio, in un autogrill vicino Milano, un padre e un figlio ebrei francesi sono stati presi di mira. Dalle offese filmate con un telefonino — “assassini, tornatevene al vostro paese, qui non siamo a Gaza” — si è rapidamente passati ai calci e agli spintoni. Il padre è stato scaraventato a terra, sotto lo sguardo spaventato del bambino.

Questi episodi non sono schegge isolate, ma tasselli di deriva che corre veloce. Una deriva alimentata da dichiarazioni pubbliche che finiscono per legittimare la logica della colpa collettiva. C’è chi, come Giuseppe Conte, ha chiesto agli ebrei italiani di dissociarsi da Israele, come se dovessero guadagnarsi l’innocenza. E c’è chi va oltre, vedendoli colpevoli a prescindere.

Tra questi Luca Nivarra, docente universitario di giurisprudenza che a fine agosto, in un post su Facebook, ha mostrato con chiarezza la china del dibattito pubblico: invitava a togliere l’amicizia a tutti gli ebrei — anche quelli “buoni”, ovvero quelli che si dichiarano disgustati dalle azioni del governo israeliano e dell’Idf, perché certamente “mentono”. La colpa ebraica non può essere lavata da comportamenti o opinioni personali. Sei ebreo e morirai ebreo, e in quanto tale, persona non grata.

Un messaggio dello stesso tenore è arrivato, in privato, al consigliere comunale di Milano Daniele Nahum. «I vostri genitori sono colpevoli di avervi messi al mondo perché siete dei parassiti», gli ha scritto qualcuno.

È il segno di uno sdoganamento del linguaggio: slogan e cornici belliche importati dal conflitto in Medio Oriente diventano passepartout identitari, trasformando il lessico della protesta in stigmatizzazione dell’ebreo in quanto tale, non della politica israeliana.

C’è chi ancora si nasconde dietro la maschera dell’antisionismo, come dimostrano i poster comparsi a Milano in estate con la scritta “Israeli not welcome”, o i cartelli che vietavano l’ingresso a “israeliani e sionisti” esposti a Milano fino a quello del bar a Termoli che recitava “in questo locale è vietato l’ingresso agli israeliani”. Ma c’è anche chi non si preoccupa più di fingere: il 25 agosto ad Alghero è apparsa la scritta “ebreo razza bastarda”, mentre a Montigo un architetto ha denunciato la comparsa ripetuta di graffiti come “ebrei di merda”.

Quando l’attacco diventa personale, l’escalation è ancora più grave. Il 5 agosto a Milano, sulla porta di casa di una famiglia ebraica è stata incisa la frase “ebrei bastardi”, accompagnata da due svastiche.

Le svastiche hanno colpito anche a Roma la sede del Keren Kayemeth LeIsrael, mentre a Milano graffiti che equiparavano la stella di David alla svastica sono apparsi in varie vie e davanti agli uffici di Forma International, casa di produzione indipendente di Ruggero Gabbai che realizza documentari spesso legati a temi ebraici.

Gli attacchi non risparmiano nemmeno chi si limita a parlare di Israele. Il 22 agosto, cinque giornalisti de Il Tempo hanno ricevuto una lettera di minacce di morte firmata da un gruppo di anarchici: «servi del potere, morirete». A Caserta, sulla montagna di San Michele, accanto a una lapide commemorativa, qualcuno ha appeso un cartello dal macabro italiano: «Hitler ne ha rimasti molti di ebrei».

 

Libertà di espressione? O violenza e minacce?

La domanda torna sempre: dove finisce la libertà di espressione? Permettere che si diffondano pubblicamente messaggi che colpiscono gli israeliani come popolo, e ancor più gli ebrei in quanto colpevoli di una “colpa atavica”, significa rendere sempre più pensabile — e quindi sempre più praticabile — l’attacco contro chi è identificato o identificabile come ebreo. Un fenomeno alimentato dagli intolleranti, ma che si allarga anche ai conformisti e agli opportunisti, con il silenzio distratto di chi osserva senza reagire.

Come nota Pasqualino Trubia su Osservatorio Antisemitismo, la strumentalizzazione del conflitto mediorientale dà sfogo ai “rigurgiti di odio in Europa”, rimasti repressi dopo la Seconda guerra mondiale. Un odio che gli algoritmi dei social non fanno che amplificare, perché «premiano le urla, non le ragioni. E l’odio urla sempre più forte».

E dagli algoritmi si passa facilmente alle “performance” dell’idiozia premiata: in agosto due operatrici sanitarie hanno diffuso un video in cui gettavano nel cestino farmaci Teva, prodotti da un’azienda israeliana, invitando al boicottaggio. Un gesto tanto clamoroso quanto insensato, visto che si trattava di beni sanitari pubblici. Come ha ricordato l’esperto farmaceutico Levy de Rothschild, Israele rappresenta solo lo 0,2% della popolazione mondiale ma contribuisce a circa il 10% della ricerca medica globale: «chi propone un boicottaggio scientifico o industriale verso Israele lo fa a discapito della salute di tutti». Le due, travolte dalle polemiche, hanno poi diffuso un secondo video in cui mostravano i farmaci ancora intatti e chiedevano scusa.

L’odio, dunque, non resta confinato alla strada. Lo si ritrova nei boicottaggi grotteschi che non risparmiano neanche turismo e cultura.

Alberghi in Sicilia e Sardegna hanno respinto turisti israeliani, imponendo loro di “condannare il governo” per poter soggiornare. A Porto Pino, un residence lo ha persino scritto sul sito: chi si presenterà con documenti israeliani dovrà dichiarare di ripudiare il proprio governo e l’esercito. A Ragusa, una struttura ha chiesto a una turista israeliana di cancellare la prenotazione se non avesse condannato Israele. Il titolare, Andrea Leanza, si è difeso sostenendo che non si tratti di razzismo, ma di un’opposizione “a tutte le guerre”. Eppure difficilmente manderebbe la stessa richiesta a visitatori provenienti da altri Paesi in conflitto.

Il clima si ripete altrove: a Chia, un cartello in ebraico in spiaggia scoraggiava l’arrivo dei turisti israeliani indicati come “criminali di guerra”. Il 5 settembre, un’azienda di taxi per disabili ha negato il servizio a una turista israeliana in sedia a rotelle, “per prendere posizione contro Israele”.

Nel frattempo, il gruppo Venice4Palestine tentava di ostacolare la presenza di artisti israeliani alla Mostra del Cinema di Venezia.

Così, mentre molti dichiarano la propria solidarietà ai palestinesi — spesso in un legittimo sforzo morale di attenzione verso un popolo che ha sofferto e soffre — non mancano gli eccessi speculari: c’è chi inneggia a un nuovo genocidio ebraico o auspica un attacco nucleare su Israele. Del resto, da due anni nelle piazze italiane si lasciano risuonare slogan come “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”, una formula violenta che richiama un Levante judenfrei e l’annientamento di Israele. Lo stesso slogan è stato adottato a fine agosto da tre alpinisti, che hanno aperto una nuova via battezzandola “Dal fiume al mare” (ovvero il territorio di Israele dove oggi vivono due milioni di arabi israeliani e sette milioni di ebrei israeliani) e dedicandola “ai palestinesi che combattono contro i sionisti”, una dedica dai toni violenti che inneggia alla lotta armata.

Un grido che, dalle strade ai cortei, dai bar ai manifesti affissi a Milano, fino alle insegne di locali e mercerie, viene ripetuto senza troppa cognizione di causa. Quello che sta emergendo è un clima che normalizza la discriminazione e trasforma slogan e simboli in atti concreti di esclusione, intimidazione e violenza. È un antisemitismo che non ha più bisogno di travestimenti, che non distingue individui e opinioni, e che si alimenta di silenzi e complicità. Per questo, più ancora delle svastiche sui muri o delle scritte sui social, il pericolo maggiore è la rassegnazione: l’idea che tutto questo possa essere tollerato come parte del paesaggio.