di Sofia Tranchina
Un video di un drone israeliano mostra miliziani di Hamas mentre inscenano il “ritrovamento” di un corpo davanti al Comitato Internazionale della Croce Rossa. Dietro la farsa, una strategia calcolata per ritardare la restituzione degli ostaggi e mantenere il potere.
Il video

Un corpo avvolto in un sacco bianco viene estratto da un edificio, gettato in una fossa, ricoperto di terra e, pochi minuti dopo, “ritrovato” davanti agli operatori del Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR). Questa la pantomima funebre messa in scena degli uomini di Hamas a Shejaiya, ripresa da un drone israeliano — rilanciato anche dalla CNN. La pala solleva la terra, il bulldozer raschia, la polvere si alza. Sembra una parabola: la guerra sposta i morti, li traveste, li riutilizza.
A Gaza, teatro di Hamas, l’immagine è campo di battaglia privilegiato, anche la morte deve recitare la sua parte davanti al pubblico, e ogni tragedia, palestinese o israeliana, viene strappata alla dimensione intima del lutto e trasformata in spettacolo.
Secondo l’accordo di cessate il fuoco mediato dall’amministrazione Trump, Hamas si è impegnata a restituire entro 72 ore i corpi degli ostaggi israeliani trattenuti a Gaza. Ma tredici di essi mancano ancora.
L’organizzazione giustifica il ritardo sostenendo che i resti sarebbero sepolti sotto le macerie di una Striscia devastata dai bombardamenti. «Chi ha sepolto i corpi è stato martirizzato o non ricorda più dove li ha sepolti», giustifica l’organizzazione. Dietro questa lentezza, però, si gioca una partita più ampia: finché i corpi non vengono restituiti, il cessate il fuoco resta “sospeso” e la seconda fase dell’accordo — quella che prevede il disarmo e la perdita del potere politico di Hamas — non può iniziare. Rallentare la restituzione significa allungare i tempi, esasperando Trump e i suoi ultimatum, nella speranza che la pressione americana svanisca.
E questa volta Hamas è stata colta con le mani nel sacco della propria propaganda mortuaria. La violenza non è più solo nel sangue versato, ma nella banalizzazione del falso.
La denuncia del CICR
Il Comitato Internazionale della Croce Rossa è noto per la sua rigorosa neutralità, principio che gli consente di operare anche nei contesti più ostili senza essere respinto dalle parti in conflitto. Proprio questa imparzialità, però, è stata più volte contestata nel caso di Gaza: gli operatori non hanno visitato gli ostaggi israeliani durante i due anni di prigionia né hanno denunciato gli abusi esibiti da Hamas in modo plateale al momento del rilascio.
Questa volta, tuttavia, persino il CICR ha rotto il silenzio, definendo l’episodio una “trappola inaccettabile”. L’organizzazione ha spiegato di aver preso parte “in buona fede” a quella che sembrava un’operazione di recupero dei resti umani, senza sapere di essere stata coinvolta in una messinscena orchestrata a fini propagandistici.
«Il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) è a conoscenza di un video relativo al recupero di una persona deceduta a Gaza. Su richiesta di Hamas, il CICR ha accettato di essere presente in buona fede nel suo ruolo di intermediario neutrale tra le parti. La presenza del CICR è stata notificata alle autorità israeliane ed è avvenuta in piena trasparenza. Il team del CICR presente sul posto non era a conoscenza del fatto che una persona deceduta fosse stata collocata lì prima del loro arrivo, come si vede nel filmato. In generale, il nostro ruolo di intermediario neutrale non include l’esumazione dei corpi dei defunti. Il nostro team ha solo osservato quella che sembrava essere un’operazione di recupero dei resti, senza conoscenza preventiva delle circostanze che l’hanno preceduta. È inaccettabile che sia stata inscenata una finta operazione di recupero dei resti, quando così tanto dipende dal rispetto di questo accordo e quando così tante famiglie attendono ancora notizie dei propri cari. La situazione sul terreno a Gaza è estremamente difficile. Le nostre squadre operano sotto costante pressione per partecipare a operazioni e lo fanno in buona fede in un contesto altamente volatile e complesso. A causa di queste difficoltà, il team presente non è stato in grado di intervenire direttamente sul posto. Il CICR sta esprimendo le proprie preoccupazioni direttamente alle parti. Ribadiamo con urgenza il nostro appello affinché i resti umani siano trattati con dignità, nel rispetto del diritto internazionale umanitario e degli standard forensi. La restituzione dei resti ai familiari non deve mai essere politicizzata. Il CICR rinnova inoltre il proprio appello alle parti affinché rispettino i loro impegni previsti dall’accordo di cessate il fuoco e facilitino il ritorno dei defunti. Il CICR può adempiere alle proprie responsabilità solo con la cooperazione di tutte le parti coinvolte.»
Ma il time stamp del video smentirebbe la versione ufficiale: tra il momento in cui il corpo viene nascosto e la chiamata all’osservatore del CICR passano circa sei minuti — un dettaglio evidenziato anche dal Ministero degli Esteri israeliano in un post su X:
«Apprezziamo la condanna da parte della Croce Rossa delle messinscene di Hamas — le finte “sepolture” e “scoperte” dei corpi degli ostaggi, già estratti dai siti di detenzione di Hamas. Sembra esserci un divario tra ciò che l’ufficio della Croce Rossa sa, e la realtà, dato il filmato che mostra il personale presente durante l’inganno. Confidiamo che il CICR intraprenderà azioni in merito alle menzogne che i loro operatori apparentemente riferiscono ai superiori.»
Il teatro della guerra e la necrofilia del pubblico
Il corpo mostrato nel video e poi restituito apparteneva a Ofir Tzarfati, ostaggio israeliano catturato durante il massacro del festival Nova il 7 ottobre 2023. Frammenti erano già stati restituiti due volte, “a rate”, e sepolti: «è la terza volta che riapriamo la tomba di Ofir. Il cerchio doveva chiudersi nel dicembre 2023, ma non è mai successo. Come si può seppellire il proprio figlio più di una volta?», chiede la madre.
Per l’esercito israeliano si tratta di una violazione flagrante del cessate il fuoco. Ma il video rivela qualcosa di più profondo: il ruolo del corpo in una guerra che esibisce la morte, superando il voyeurismo e sfiorando la necrofilia.
Hamas è consapevole di non poter prevalere in una guerra convenzionale. Nonostante gli arsenali, i fondi e la rete di milizie, la scarsa coordinazione con le forze sciite — rivali teologici ma alleati tattici — ne ha logorato la credibilità militare.
Il gruppo ha dunque puntato tutto sulla guerra dell’immagine. Da anni perfeziona una grammatica visiva: i momenti di lutto vengono filmati e trasformati in atti politici, come lo sono state le restituzioni plateali degli ostaggi e delle loro bare. Ogni inquadratura è studiata per ribaltare la gerarchia morale del conflitto, venduta poi ai militanti della “giusta causa”.
Nel teatro nebuloso della propaganda, ognuno sceglie la propria versione della realtà. Così lo spettatore, guardando, condividendo, commentando e, soprattutto, indignandosi, perpetra ignaro la violenza di chi pretende di saper distinguere ancora tra vero e falso.
Il movimento islamista ha saputo cogliere e sfruttare a proprio vantaggio un’acuta intuizione sull’Occidente: una condivisa, morbosa parafilia per la morte che non si vedeva dai tempi più oscuri del Novecento. Sui social, si moltiplicano così immagini strazianti, ricondivise con piacere perverso, accompagnate da didascalie del tenore di “un ebreo buono è un ebreo morto”.
La sepoltura come fine
La fine della guerra, dai tempi di Omero, è scandita dallo scambio dei corpi dei caduti. Dietro a questa tradizione antica, c’è una promessa che l’umanità fa a sé stessa: non lasciare soli i morti. Strumentalizzando i corpi, i falsari di Hamas non hanno solo violato un cessate il fuoco: hanno infranto quella promessa atavica.
In Israele, ogni ostaggio ha un volto, una storia, un nome ripetuto ogni giorno nelle piazze, nelle sinagoghe, nelle case.Il corpo, lì, non appartiene solo a una famiglia: appartiene alla nazione. Dal 7 ottobre il Paese vive in un lutto condiviso, i ritratti dei prigionieri coprono le piazze, i nastri gialli pendono dai balconi, e le famiglie aspettano. Il corpo assente diventa una presenza ossessiva che contamina ogni tentativo di quotidianità, e Hamas, capendone il valore, ha più volte sfruttato questa vulnerabilità. I video della prigionia, le restituzioni incomplete, le false notizie: tutto partecipa a una guerra psicologica che tiene un’intera società in ostaggio.
Oggi, tredici nomi mancano ancora all’appello. Finché nessuna prova forense chiuderà il ciclo e il dolore non avrà corpo su cui posarsi, nonostante le conferme dell’intelligence, la loro morte rimane astratta e la questione aperta: «senza i corpi non c’è certezza né lutto possibile», spiega la psicologa Einat Yehene, del Forum delle famiglie degli ostaggi. In ogni casa resta una sedia vuota, un letto intatto, una speranza sospesa. Questo lutto incompiuto, alimentato da disinformazione e guerra psicologica, prolunga il supplizio collettivo.
Nella tradizione ebraica seppellire i morti è un atto sacro: rimette il mondo nel suo ordine. Non poterlo fare significa lasciare la vita sospesa in un limbo. E solo quando la terra avrà ricoperto tutti gli assenti, la guerra potrà finire e la vita ricominciare.



