di Nina Deutsch
Rom Braslavski, una guardia al festival Nova il 7 ottobre, è stato ostaggio per 738 giorni della Jihad Islamica. Dopo la liberazione, racconta le torture, le umiliazioni e la follia di un sequestro che voleva cancellare la sua identità: «Mi hanno colpito con gioia. Solo perché ero ebreo». Oggi il giovane vive nel timore di “impazzire”. Il suo racconto è una discesa nel buio e una battaglia per ritrovare sé stesso.
C’è una frase che Rom Braslavski ripete più volte, con voce rotta, quasi sussurrata: «Mi hanno torturato per un solo motivo: perché sono ebreo».
Parole che pesano come pietre, che scavano nel silenzio dopo 738 giorni di prigionia nelle mani della Jihad Islamica Palestinese.
Rom oggi ha ventun anni e un corpo che porta ancora i segni di due anni di abusi. È stato rapito il 7 ottobre 2023, durante il festival musicale Nova, dove lavorava come guardia di sicurezza. Quel giorno – il giorno in cui Hamas e altri gruppi armati fecero irruzione al confine con Gaza, uccidendo centinaia di persone – la sua vita si è spezzata in due.
La sua prigionia – come ricostruito dal Times of Israel – è un resoconto che gela il sangue e lascia addosso un silenzio pesante. Un viaggio dentro la disumanità quotidiana, dove ogni gesto, ogni sussurro, ogni colpo di frusta diventa parte di un rituale di annientamento; un resoconto che lacera chi legge, un inventario della disumanità. «Era la prima volta che vedevo un cadavere», racconta oggi, con gli occhi fissi su un punto che solo lui sembra vedere. «C’erano due ragazze a terra, vestite da festa. Tutto era sangue e urla». Prova a fuggire. Lotta. Pugni, spintoni, un tentativo disperato di ribellione. «Mi sono detto: “Senti, sei in un film. Se fossi il protagonista, cosa faresti?”. E ho iniziato a colpirlo con tutta la forza che avevo».
Scappa per pochi istanti, abbastanza per vedere che corre verso Gaza, non lontano dal confine. Poi le mani dei terroristi lo raggiungono. «Mi hanno rotto il naso con un pugno. Poi mi hanno trascinato via. Lì è iniziato l’inferno».
Dieci giorni legato a un armadio
A Gaza, Rom è rinchiuso in una casa privata. Per dieci giorni rimane legato a un armadio, senza sapere chi ci fosse fuori, senza vedere la luce. Dopo un po’ capisce che nessuno sarebbe venuto a salvarlo e decise di fare qualcosa.
«Un amico mi aveva insegnato come liberarmi dai legacci», dice. «Così, quando non c’erano, mi slegavo e rovistavo in giro. Cercavo cibo, acqua, qualsiasi cosa potesse aiutarmi a sopravvivere».
L’undicesimo giorno decide di cucinare della pasta. Un gesto assurdo, di resistenza umana. La forza della disperazione. «Mi sono detto: “Preparo i maccheroni”». Non c’era gas, non c’erano pentole. Brucia vestiti e libri dei figli del suo carceriere per accendere il fuoco. Il fumo lo tradisce: la gente del quartiere nota subito quella casa e capisce. «Hanno iniziato a bussare alle finestre, alle porte. Ho pensato: “Cazzo, mi hanno trovato”».
Si nasconde sotto il letto, tremando. Ma riescono a tirarlo fuori. «Mi hanno picchiato così forte che per due settimane non riuscivo a camminare». Poi il suo rapitore torna, scaccia la folla e lo lega di nuovo. «Quando se ne è andato, mi sono slegato e ho mangiato la mia pasta», dice con un sorriso fragile, quasi bambino.
Il tempo sospeso
Nelle settimane e nei mesi successivi, Rom rimane quasi sempre solo. Un’unica eccezione: 48 ore passate con un altro ostaggio, Sasha Troufanov, a Rafah. «È stato il regalo più grande della mia vita», racconta. «Abbiamo parlato sottovoce, ore e ore. Era la prima volta che mi sentivo di nuovo umano». Poi la separazione, di nuovo il silenzio. E la paura.
La sua prigionia cambaò volto nel marzo 2025, quando rifiuta di convertirsi all’Islam. «Mi dissero che era per il mio bene. Io risposi: “Sono nato ebreo e morirò ebreo”».
Quel rifiuto scatena la furia dei suoi carcerieri. Da quel momento, comincia la tortura sistematica.
Il buio, la fame, la frusta
Lo bendano. «Mi disse che me l’avrebbero tolta dopo due o tre giorni. Non è mai successo». Dopo la vista, gli tolgono l’acqua, poi l’udito. Pietre nelle orecchie, fame, isolamento. «Ti esaurisce mentalmente. Non mangi, non vedi, non senti. Trattieni l’urina per ore. Il corpo si spegne, ma la mente no. E quella è la tortura peggiore».
Poi arriva un biglietto, letto ad alta voce dal suo aguzzino: «Legate Abu Salem e torturatelo». Abu Salem – così lo chiamavano – era lui. «Sono entrati ridendo. Mi hanno legato, mi hanno messo contro il muro e hanno iniziato a picchiarmi. Quando cercavo di svenire, mi tenevano sveglio». Dopo i pugni arriva la frusta, di metallo.
«Mi dicevano di sdraiarmi. Uno mi teneva le gambe e l’altro mi colpiva. Quaranta volte di fila. Ogni giorno. Ogni ora». La frusta si deforma sotto la forza dei colpi. «Portavano con sé una radio. Mettevano musica allegra mentre mi picchiavano. Ballavano mentre mi torturavano».
Durante l’agosto 2025, la Jihad Islamica diffonde un video in cui Rom appariva sdraiato a terra, magrissimo, in lacrime. La sua famiglia chiede che non venga pubblicato integralmente. «So quante botte sta prendendo», disse sua madre, Tami. «Rom non piange. Se piange, è perché lo stanno distruggendo».
«Non piangevo per la fame», ricorda oggi. «Piangevo per il dolore fisico. A un certo punto dissi loro: “Prendetevi anche quella palla di falafel che mi date ogni giorno. Lasciatemi morire di fame. Ma smettete di picchiarmi”».
La violenza più crudele
Ma la crudeltà non finisce lì. Dopo le torture fisiche arrivano quelle sessuali. «Mi spogliarono, mi legarono, e continuarono a picchiarmi. Era per umiliarmi. Per distruggere la mia dignità». Rom fatica a parlarne: «È stata la cosa più orribile. È qualcosa che nemmeno i nazisti avrebbero fatto».
La sua testimonianza, secondo i media israeliani, è la prima in cui un ex ostaggio maschio denuncia pubblicamente abusi sessuali durante la prigionia. Una testimonianza devastante che lascia sbigottiti, senza parole.
«Non mi hanno torturato per vendicarsi di un politico o per odio verso Israele in generale», ripete. «Mi hanno torturato perché sono ebreo. Tutto qui».
Altri ostaggi israeliani hanno affermato di essere stati aggrediti o abusati sessualmente durante la prigionia di Hamas, accuse ripetutamente negate dai funzionari di Hamas. Un rapporto delle Nazioni Unite afferma di aver trovato informazioni «chiare e convincenti» sul fatto che gli ostaggi a Gaza abbiano subito abusi sessuali.
Dopo la liberazione
Il 13 ottobre 2025, dopo oltre due anni di prigionia, Rom Braslavski è stato finalmente liberato insieme ad altri 19 ostaggi, grazie a un accordo mediato dagli Stati Uniti per la fine della guerra a Gaza. Ma la libertà, per lui, non ha il sapore della pace. «Mentalmente, non sono pronto a lasciare l’ospedale», dice. «Lì mi sento protetto. Ho paura di uscire, di perdere la testa.» La voce si incrina: «Sono distaccato. Cammino, faccio le cose, ma non sento nulla. Il cervello è spento. L’anima è spenta. Il corpo è spento».
Eppure non rinuncia alla speranza. «Quando vedo gli altri ostaggi ai concerti, felici, non li invidio. So che arriverà anche per me quel momento. Quando riuscirò ad alzarmi, quando riuscirò a ridere ancora.» Poi sorride, appena. «Anch’io sarò felice e contento come loro».



