Con chi trattare?

Israele

L’assessore alla Cultura del Comune di Milano Vittorio Sgarbi è intervenuto fra gli altri a Fermare il pericolo con la forza della parola, la giornata dibattito tenutasi al teatro Dal Verme. Ecco il suo pensiero.
Si può immaginare di poter trattare con chi vuole la tua eliminazione fisica? Si può accettare di negoziare con chi nega il tuo diritto di esistere? È questa la posizione del presidente iraniano Ahmadinejad nei confronti dello Stato di Israele. Da una parte un Paese democratico, dall’altra parte una dittatura teocratica. Israele viene accusato di colonialismo, di imperialismo, nella oggettiva condizione di parafulmine dell’anti-americanismo, che è la radice malata in cui si dibatte una parte non piccola della sinistra.
Lo ha evidenziato, con una contraddizione anche personale, Piero Fassino nel lungo intervento al convegno al Teatro Dal Verme, a Milano. Belle e oneste parole, che sembrano prescindere dalla funzione di segretario del primo partito di una maggioranza di cui fa parte anche chi, come Diliberto, partecipa a manifestazioni in cui si brucia la bandiera di Israele. Sarà sufficiente «fermare il pericolo con la forza della parola» come sembra intendere Andrée Ruth Shammah? A giudicare da come è stato accolto il mio intervento, tanto dialettico quanto responsabile, si direbbe di no. Io mi sono limitato, diversamente da Fassino, a condividere la lettera aperta indirizzata, con l’invito a firmarla a tutti i partecipanti al dibattito, al Presidente della Repubblica Napolitano: «Dobbiamo scegliere se tollerare parole scellerate portatrici di morte, come quelle del Presidente iraniano Ahmadinejad confidando che siano solo parole, oppure ribellarci e far sentire la nostra voce prima che sia troppo tardi».
Insiste Andrée Ruth Shammah, e io con lei, davanti a un pubblico scettico e forse convinto di partecipare a una convention dei Ds, con i sensi di colpa delle contraddizioni da me indicate: «Non si può continuare a spendere parole inutili e piatte che possano spingere i giovani a pensare, ad esempio, che l’Olocausto sia una cosa finita, soltanto una brutta favola che ha avuto un inizio e una fine». Occorre dire, con fermezza, ciò che è lecito e ciò che non è lecito. Ciò che esprime civiltà e ciò che esprime barbarie.
Ogni eccesso normativo è, in verità, sempre pericoloso. Non di meno, delle tante leggi che il Parlamento sembra necessitato a produrre, quanto inutile mi appare quella sulle unioni di fatto, in un Paese cristiano e tollerante (ma che non dovrebbe rinnegare le proprie radici culturali per ossequio all’evoluzione dei costumi) tanto mi sembra opportuna quella proposta dal ministro della Giustizia per punire chi nega l’olocausto. Non capisco le preoccupazioni degli storici che nei giorni scorsi hanno firmato il «manifesto dei centocinquanta» (ho sempre sospettato di chi firma i manifesti), condiviso scolasticamente dal ministro Rutelli. Per questi pur rispettabili studiosi è più importante garantire la libertà di opinione che difendere la verità dei fatti. Ho sempre pensato che compito di uno storico fosse descrivere gli accadimenti cercando di trovarne il significato, di attribuire un senso alla storia dell’uomo; e che del filosofo fosse il compito di esprimere una visione del mondo, indicare un punto di vista, quindi una opinione. Dallo storico discende il giornalista, dal filosofo l’osservatore e il commentatore.
Preoccupazione degli storici, anche rigorosi e apprezzabili, è che la verità non si stabilisce con una legge. Ma non si può neppure consentire che chiunque possa dire le stupidaggine che crede. Difficile capire che cosa abbia preoccupato gli storici, come se garantire la libertà di negare i fatti fosse più importante dei fatti. Qui non si tratta di stabilire una verità per legge come se la Shoah fosse una «verità storica di Stato» e non una tragedia individuale e collettiva. Le modalità dello sterminio degli ebrei, le terribili vicende di cui abbiamo racconto, testimoni e memorie, non sono letteratura ma solo fatti. La libertà d’opinione riguarda ragioni etiche e politiche. L’episodio, da molti ricordato, della condanna di David Irwing non può essere uno spettro per sostituire il falso con il vero, scambiandolo per un diritto d’opinione.
Negare Waterloo o le guerre di indipendenza non vuol dire interpretare ma negare la storia. Un ragazzo che, come può accadere, collocasse la prima guerra mondiale nel 1948, sarebbe bocciato. Non si può legittimare l’ignoranza. Sono paradossali gli argomenti degli storici contrari alle sanzioni per i falsari per non offrire ai negazionisti l’opportunità di ergersi a difensori della libertà d’espressione della falsificazione. O non è importante sapere se i diari di Hitler o di Mussolini sono autentici, prima di esprimere una valutazione? In verità, nulla è più contrario alla libertà d’espressione della menzogna. Affermare la verità storica della Shoah non equivale alla ragion di Stato che ha imposto, al contrario, la non esistenza del genocidio armeno in Turchia.
Proporre queste equivalenze significa far coincidere la verità con la menzogna. Una cosa è affermare la realtà di un episodio, una cosa è cancellarla. Ancora più singolare è il tentativo revisionistico degli storici di «attenuare l’unicità della Shoah, non in quanto evento singolare, ma in quanto incommensurabile e non confrontabile con ogni altro evento storico». L’argomento insidioso è che se un fatto è posto «al vertice di una presunta classifica dei mali assoluti del mondo contemporaneo» si rischia di trasferirlo in una dimensione metafisica limitando una oggettiva riflessione che ne consenta una corretta interpretazione. Ma per interpretare, devo conoscere e riconoscere. Gli orrori del nazismo non possono consentire attenuanti né sul piano etico, né sul piano del giudizio storico. Ma anche per esprimere il giudizio più indulgente non si può prescindere dai fatti. Questo è l’errore, non la libertà negata, di David Irwing. Riconoscere la tragedia degli ebrei e i crimini del nazismo anche se accentuandone il male assoluto, non impedisce di giudicare con la stessa severità, di fronte ai fatti, i crimini del comunismo.
Ma per gli ebrei la vicenda è di bruciante attualità: il negazionismo infatti non è un errore contro la storia, soltanto, ma una prospettiva storica attuale: esso fornisce l’alibi al progetto anti israeliano e alla stessa cancellazione dello Stato di Israele del presidente iraniano Ahmadinejad. L’olocausto continua se il piano dei nazisti si riproduce in una nuova programmazione di sterminio fondata sulla negazione della precedente. Agli storici dovrebbe interessare l’accertamento dei fatti storici. Verum ipsum factum, come diceva Vico: non ci può essere nessuna verità e tantomeno libertà di opinione, che non sia mero arbitrio, senza l’accertamento dei fatti. E Mastella, più degli storici, sembra consapevole della illuminazione di Giacomo Noventa che deve essere monito per tutti gli intellettuali: «Il fascismo non fu un errore contro la cultura italiana, ma della cultura italiana».

Vittorio Sgarbi (www.ilgiornale.it)