Abu Mazen

La riforma dei sussidi e la rivolta dentro Fatah

Mondo

di Davide Cucciati
L’Autorità Palestinese ha spostato la gestione dei sussidi verso un nuovo organismo, il Palestinian National Economic Empowerment Institution, con l’idea dichiarata di legare le erogazioni a criteri di necessità sociale ed economica e non allo status politico o alla durata della detenzione.

 

Negli ultimi giorni di dicembre 2025 l’Autorità Palestinese si è ritrovata al centro di una tempesta politica che tocca uno dei suoi nervi più scoperti: i pagamenti ai detenuti per terrorismo e alle famiglie di chi è morto compiendo attacchi contro dei cittadini israeliani, il meccanismo che in Israele e in Occidente viene definito “pay for slay”. Secondo il Jerusalem Post, la scelta di Mahmoud Abbas di cambiare il metodo di erogazione ha scatenato proteste in diverse città e villaggi della West Bank.

La svolta formale, dal premio politico al bisogno sociale

La riforma non nasce ora. Già nel febbraio 2025, secondo Reuters, Abu Mazen aveva firmato un provvedimento per revocare il sistema criticato da anni da Stati Uniti e Israele. L’Autorità Palestinese ha spostato la gestione dei sussidi verso un nuovo organismo, il Palestinian National Economic Empowerment Institution, con l’idea dichiarata di legare le erogazioni a criteri di necessità sociale ed economica e non allo status politico o alla durata della detenzione.

La reazione interna

Una leadership già fragile e contestata tenta di spostare una rendita “onorifica” verso una logica da “assistenza sociale” e viene così accusata di trasformare i prigionieri in casi di povertà invece che in icone nazionali. Il tema dei detenuti e delle famiglie legate alla lotta armata è un pilastro simbolico, con una valenza identitaria che va ben oltre il welfare. Il Jerusalem Post parla di manifestazioni e di un’ondata di accuse ad Abbas, sottolineando un dettaglio che pesa più di tutti gli altri: molte critiche arrivano da ambienti di Fatah, il movimento di governo dell’Autorità Palestinese.

Pressioni esterne, Washington ed Europa come destinatari impliciti

La spinta verso la riforma è figlia di un contesto internazionale che negli ultimi anni ha reso il “pay for slay” un dossier tossico per la legittimità dell’Autorità Palestinese. Nel febbraio 2025, Reuters ha contestualizzato la mossa proprio nella cornice delle critiche americane e israeliane. Tuttavia, secondo il Times of Israel, Israele sostiene che la nuova regolamentazione si limiterebbe a un semplice cambiamento formale senza che vi sia alcun cambiamento tangibile nella realtà.

Dal lato palestinese, la strategia è duplice. Da un lato si insiste sul carattere tecnico e non politico del Palestinian National Economic Empowerment Institution, dall’altro Abbas prova a chiudere la falla ribadendo fedeltà ai prigionieri. Al Quds ha pubblicato un pezzo in inglese in cui Abbas entra nel merito dello stop alle indennità e del ruolo dell’istituzione. Sul piano simbolico, Abu Mazen ha ribadito che la lealtà verso i prigionieri e i “martiri” resta ferma, descrivendola come un impegno nazionale e morale. Sul piano tecnico ha legato il passaggio alla Palestinian National Economic Empowerment Institution a una cornice di unificazione dei programmi di protezione sociale, con criteri presentati come oggettivi e professionali per garantire giustizia, trasparenza e sostenibilità. Infine, ha difeso l’istituzione come struttura esecutiva, non politica, sostenendo che attribuirle responsabilità oltre il suo ruolo meramente amministrativo significherebbe distorcere i fatti e danneggiare un’istituzione nazionale.

Per Israele, il dossier è al tempo stesso morale, securitario e diplomatico. Morale e securitario, perché la logica del premio legato alla pena viene presentata come un incentivo al terrorismo. Diplomatico, perché influenza la disponibilità internazionale a sostenere l’Autorità Palestinese come interlocutore. Per l’Europa, la questione è un test di governance: se Ramallah vuole essere considerata una struttura statuale credibile deve poter vantare riforme verificabili e non solo tentate.

Tre indicatori diranno se la riforma è sostanza o solo forma

Il primo è la continuità dei pagamenti: se i fondi continueranno a raggiungere in modo sistematico gli stessi beneficiari, Israele e gli Stati Uniti diranno che il cambiamento è un semplice maquillage.

Il secondo è la tenuta interna: la protesta che nasce dentro Fatah è un segnale che non riguarda solo la concorrenza di Hamas ma riguarda la tenuta del blocco di potere su cui Abbas si regge.

Il terzo è la reazione dei donatori: se Bruxelles e Washington considereranno la riforma un passo credibile, potrebbero aprirsi spiragli politici e finanziari. Se invece prevarrà l’idea di pagamenti indiretti ed elusivi dell’innovazione normativa, questo cambiamento diventerà un boomerang, perché avrà indebolito internamente il già fragile Abu Mazen senza rafforzarlo come interlocutore credibile nei confronti degli attori dello scacchiere geopolitico.