di Anna Balestrieri
Gli arresti di Genova non sono solo un fatto giudiziario, ma il punto di svolta di una storia lunga anni, segnalata da analisti, centri di ricerca e media indipendenti ben prima dell’intervento della magistratura. Che oggi quelle ricostruzioni trovino riscontro nelle indagini, pone una domanda scomoda sul ritardo delle istituzioni e sulla selettività dell’attenzione mediatica.
Un sistema ramificato di associazioni “benefiche”, una rete di contatti internazionali e il sospetto di finanziamenti milionari destinati ad Hamas. È questo il quadro che emerge dall’inchiesta che ha portato a nove arresti tra Genova, Milano, Bologna e Firenze, con al centro la figura di Mohammad Hannoun, presidente dei Palestinesi in Italia secondo gli inquirenti al vertice della cellula italiana del movimento islamista.
La beneficenza come copertura
Secondo le indagini, tre società di beneficenza avrebbero trasferito complessivamente almeno sette milioni di euro ad Hamas, sfruttando la solidarietà per Gaza come canale di raccolta fondi. Le intercettazioni raccontano un sistema consapevole e strutturato, nel quale la creazione di nuove associazioni intestate a cittadini italiani “non conosciuti” viene discussa apertamente come strategia per aggirare controlli e sequestri.
«La cosa più importante è far uscire i soldi dalla Cupola d’Oro, in qualsiasi modo», dice Hannoun in una conversazione intercettata, riferendosi all’associazione milanese ritenuta uno snodo centrale dei finanziamenti.
Il timore del blitz e la distruzione delle prove
Negli ultimi mesi, la paura di un imminente intervento delle forze dell’ordine sembra aver guidato molte delle mosse degli indagati. Diversi arrestati avrebbero cancellato le memorie dei telefoni cellulari, mentre Hannoun arriva a confidare a un sodale:
«Sto pensando di rompere il pc dell’ufficio», per eliminare ogni traccia di conti e documenti sensibili.
Per il gip di Genova Silvia Carpanini, il pericolo di fuga e di inquinamento delle prove era concreto, tanto da giustificare le misure cautelari immediate.
Il ruolo di Hannoun e la rete europea
Gli inquirenti non hanno dubbi: Hannoun sarebbe stato il referente principale della cellula italiana di Hamas, incaricato di coordinare i contatti in Italia e nel cosiddetto circuito dell’«Arena europea». Un ruolo chiave lo avrebbe avuto Riyad Albustanji, detto “il norvegese”, arrestato a Bologna e fotografato in assetto militare accanto a miliziani armati.
I fondi, secondo la ricostruzione, viaggiavano attraverso Turchia, Giordania ed Egitto, su indicazione di Osama Alisawi, definito dallo stesso Hannoun «il nostro rappresentante a Gaza», oggi latitante.

Intercettazioni e conferme incrociate
A rafforzare l’impianto accusatorio contribuiscono anche le parole dei familiari degli affiliati. In un dialogo intercettato, la moglie di uno di loro distingue chiaramente i ruoli:
«Tu non sei come Hannoun, che è di Hamas e lavora per loro».
Non solo. Già nel 2024, il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti aveva accertato l’invio di almeno quattro milioni di euro a Hamas da una delle associazioni genovesi. «No quattro, dieci», corregge Hannoun intercettato, rivendicando il sacrificio economico come contributo alla lotta armata.
Un’inchiesta lunga anni
Le attività finanziarie di Hannoun erano sotto osservazione da quasi vent’anni. Nel 2006 una prima richiesta di arresto venne respinta; nel 2021 l’inchiesta rischiò di arenarsi per ritardi negli atti provenienti da Israele. La svolta arriva solo di recente, grazie alla collaborazione delle autorità israeliane, che consente di ricostruire flussi di denaro, ruoli e responsabilità.
Tra gli arrestati figurano anche Rahed Al Salahat, referente per la Toscana, Yaser Elasaly e Abu Deiah Khalil, considerato il factotum della Cupola d’Oro.
Le reazioni da parte ebraica
Walker Meghnagi, presidente della comunità ebraica milanese:”Ringraziamo le forze dell’ordine per l’operazione anti-terrorismo che ha visto l’arresto di nove persone accusate di aver finanziato Hamas, cosa che aumenta la sicurezza sia delle comunità ebraiche che di tutti gli italiani in generale.”
Dichiara Davide Romano, direttore del Museo della Brigata ebraica: “Sono anni che denunciamo la vicinanza di Hannoun ad Hamas sulla base di fonti aperte: eventi, interviste, comunicati e notizie di stampa. Ringraziamo le forze dell’ordine per l’operazione anti-Hamas. Da anni denunciamo la vicinanza di alcuni esponenti del mondo palestinese italiano alla organizzazione terroristica palestinese e come essa non faccia l’interesse del popolo palestinese. L’ennesima conferma viene proprio dalle indagini, da dove emerge che più del 71% dei soldi che raccoglievano per la popolazione palestinese andavano invece ad Hamas. Ancora una volta, Hamas sfruttava la generosità di tanti occidentali a fini terroristici. Denunciamo questa deriva da anni, inascoltati da spezzoni del PD, del M5S e di AVS. Oggi spero che i vari parlamentari che hanno incontrato e aiutato Hannoun in passato, gente come Laura Boldrini, Marco Furfaro, Manlio Di Stefano, Stefania Ascari, Nicola Fratoianni, Gianluca Ferrara, Alessandro Di Battista, Matteo Orfini, Stefano Fassina, Davide Tripiedi, Marco Bella e tanti altri chiedano scusa per il danno fatto non solo alla sicurezza degli italiani e degli israeliani, ma per il tradimento verso la popolazione palestinese che quegli aiuti non ha visto arrivare. Inquietante come certi politici che come primo dovere dovrebbero vigilare sui fondi, non abbiano saputo o voluto vedere cosa era sotto gli occhi di tutti.
L’allarme lanciato un anno fa da Mosaico
Quanto oggi emerge dalle carte giudiziarie era stato già documentato e denunciato pubblicamente oltre un anno fa. Mosaico aveva infatti dedicato, il 21 novembre 2024, un ampio approfondimento a un report che smascherava la rete di Hamas in Italia con ramificazioni a livello europeo, individuando in Mohammad Hannoun l’epicentro operativo. L’articolo, basato sul dossier presentato da ELNET Italia durante il Congresso nazionale della Federazione delle Associazioni Italia-Israele, ricostruiva in modo dettagliato il sistema di organizzazioni “civili”, associazioni di beneficenza, strutture mediatiche e circuiti di lobbying utilizzati — secondo gli analisti — per la raccolta fondi, la propaganda e il sostegno indiretto a Hamas.
Il quadro tracciato allora — dai flussi di denaro alla funzione delle sigle associative, fino ai legami transnazionali — coincide in larga parte con gli elementi oggi al centro dell’inchiesta della magistratura italiana, confermando come le attività attribuite a Hannoun fossero da tempo oggetto di segnalazioni pubbliche e documentate, ben prima degli arresti di questi giorni.
Il caso del comunicato della magistratura e il corto circuito istituzionale
A complicare ulteriormente il quadro, nelle stesse ore degli arresti è esplosa la polemica su un comunicato congiunto della magistratura, definito da Start Magazine «sorprendente» e «paradossale». In un intervento firmato da Francesco Damato, la testata ha sottolineato l’anomalia di una nota ufficiale che, pur annunciando lo smantellamento di una rete di sostegno a Hamas — grazie anche alla collaborazione delle autorità israeliane — ribadisce al tempo stesso la condanna delle azioni di Israele e richiama i procedimenti della Corte penale internazionale.
Secondo Damato, il messaggio trasmetterebbe un’ambiguità politica e simbolica, quasi una presa di distanza preventiva dall’operazione giudiziaria stessa, finendo per offrire un argomento di conforto proprio agli ambienti più vicini agli arrestati. Un cortocircuito che ha alimentato reazioni durissime nel dibattito pubblico e parlamentare, mentre una parte dell’opposizione ha denunciato una “strumentalizzazione”, rifiutando ogni autocritica sui rapporti intrattenuti in passato con Hannoun.
Una vicenda che interroga informazione, politica e istituzioni
Gli arresti di Genova non sono solo un fatto giudiziario, ma il punto di svolta di una storia lunga anni, segnalata da analisti, centri di ricerca e media indipendenti ben prima dell’intervento della magistratura. Che Mosaico avesse documentato già nel 2024 la centralità di Hannoun e della rete associativa a lui riconducibile, e che oggi quelle ricostruzioni trovino riscontro nelle indagini, pone una domanda scomoda sul ritardo delle istituzioni e sulla selettività dell’attenzione mediatica.
In gioco non c’è soltanto la repressione di un singolo circuito illegale, ma la capacità dello Stato di distinguere tra solidarietà autentica per la tragedia del popolo palestinese e infrastrutture civili utilizzate come copertura del terrorismo, senza ambiguità politiche né doppi standard.
L’indagine riaccende il dibattito sul confine tra solidarietà e terrorismo, mostrando come — secondo gli investigatori — la beneficenza possa trasformarsi in uno strumento di finanziamento occulto della violenza, con ramificazioni che dall’Italia si estendono al Medio Oriente e all’Europa.



