David Meghnagi

Freud e Jung, un sodalizio avvelenato dall’antisemitismo: parla David Meghnagi

Libri

di Fiona Diwan

Eclettico, studioso dai vasti orizzonti culturali, oltre all’attività di docente universitario, David Meghnagi ha scritto di memoria collettiva e Shoah, di antisemitismo, di storia del sionismo, ha ideato e diretto per due decenni il Master in Didattica della Shoah, si occupa di dialogo interreligioso. In merito al tema del suo ultimo saggio gli abbiamo posto qualche domanda.

Professor Meghnagi, come nasce l’idea di questo libro? Come affrontare la relazione tra Freud, Jung e Spielrein da un punto di vista della “questione ebraica”? Quale la genesi di un saggio che faccia luce sulle accuse di antisemitismo che pesavano su Jung e sulla sua opera?

Nel mio libro su Freud e l’ebraismo del 1992 dedicai un capitolo al rapporto tra Freud e Jung riservandomi di tornare sull’argomento con un lavoro che affrontasse la questione dell’emancipazione ebraica in relazione all’immagine dell’ebreo e della donna nella cultura dell’epoca e nell’antisemitismo. Se da un lato l’immagine della donna nelle prime teorie psicoanalitiche condivideva non pochi dei pregiudizi dell’epoca, dall’altro il movimento creato da Freud dette una grande impulso al processo di emancipazione della donna. Andando più indietro nel tempo ho cercato di evidenziare una corrente carsica che attraversa da sempre la storia ebraica e che ha come sfondo il femminile (e figure chiave come ad esempio Bruria, ndr). La frattura del movimento psicoanalitico coinvolse alcune decine di persone, ma è possibile retrospettivamente analizzarla come un prisma in cui erano riflesse tragedie più grandi che si andavano preparando e che ho cercato di affrontare negli studi sul trauma collettivo, il lutto, la testimonianza, la resilienza e i processi di rielaborazione e di ricostruzione di vite spezzate (Ricomporre l’infranto, Marsilio, 2005 e Le sfide di Israele, Marsilio, 2010).

Che cosa l’ha più colpita nello studio della relazione tra i tre personaggi? Il tema del tradimento, lo scontro tra formae mentis inconciliabili tra loro, la constatazione che il pregiudizio e lo spirito del tempo sono più forti di qualsiasi senso critico, cultura e intelligenza?

L’incontro con Jung fu per Freud la realizzazione di una promessa che andò poi delusa. Per Jung l’incontro con Freud fu l’uscita dal “deserto”. Il loro sodalizio scientifico e umano fu intenso. Ma sin dagli inizi, a leggere il loro carteggio, l’esito sembra quasi un tragico copione in cui erano presenti e all’opera elementi personali, storici e culturali più ampi che si intrecciarono con le tragiche derive dell’epoca.

Nel pregevole epilogo del suo saggio, lei si sofferma sulla solitudine interiore vissuta dagli intellettuali ebrei, amici e sodali di Jung: come poterono tutti loro affrontare psichicamente la difficile convivenza con questa lacerazione, tra l’antiebraismo di Jung e la fascinazione per il suo metodo di indagine?

Utilizzando il gergo psicoanalitico dell’epoca, Freud aveva invitato Abraham a tenere conto delle difficoltà che le minoranze ebraiche incontrano nei loro rapporti con la maggioranza. Per poter collaborare allo sviluppo della scienza, per il bene comune, gli ebrei avrebbero dovuto tollerare una “certa dose di masochismo”. Il problema però era di stabilire il limite che non era possibile varcare. È un aspetto della dialettica che oppone le maggioranze alle minoranze che attraversa l’intera storia della diaspora e che ha fatto da sfondo alla creativa trasformazione del dolore e nella capacità di immaginare un futuro possibile, cosa che in parte spiega perché gli ebrei hanno avuto un ruolo così importante nello sviluppo delle discipline psicologiche e sociali. Il problema cambia quando l’antisemitismo assume i contorni di un programma politico di distruzione di ogni presenza ebraica nella società, come è avvenuto con l’ascesa del nazismo al potere. Sconvolti dalle dichiarazioni di Jung all’indomani dell’ascesa del nazismo, in parte favorita dal desiderio dello stesso Jung di sostituirsi a Freud come rappresentane di una “psicologia ariana” razzialmente intesa (in opposizione alle presunte unilateralità “razziali” della psicoanalisi freudiana), molti suoi seguaci ebrei furono sconvolti. Alcuni, come Neumann, che aveva scelto di stabilirsi a Tel Aviv, invitò Jung a riflettere su pregiudizi e luoghi comuni che andavano oltre la sfera personale. Per salvarsi, la psicologia analitica doveva riscoprire l’ebraismo ed è in questa prospettiva che inizierà, dopo il suo arrivo a Tel Aviv, la sua fitta e dolorosa corrispondenza con il maestro. Ricorrendo ad un meccanismo di diniego, alcuni suoi seguaci ebrei, dissero che quella di Jung era solo una “diagnosi” e ricordarono il suo aiuto personale ai colleghi ebrei. Altri ancora, come la segretaria personale, scelsero di parlare molti anni dopo la sua morte. Scoprire che sino alla fine degli Quaranta nello statuto del Club junghiano di Zurigo esisteva una clausola segreta voluta da Jung nel 1944 (prima si procedeva informalmente) che limitava al 10 per cento l’appartenenza degli aspiranti analisti junghiani ebrei, fu la dimostrazione che la questione era molto più complessa di quanto ingenuamente si potesse immaginare. Tra i luoghi comuni del pregiudizio e la volontà sterminazionista messa in atto dal nazismo c’era una infinita gamma di varianti e gradazioni. Negli anni Quaranta e Cinquanta, nella democratica America, il numero chiuso per gli ebrei era segretamente praticato a Harvard come in altri importanti centri universitari. In Unione sovietica era invece razionalizzato e “giustificato” con la politica delle “quote nazionali”. Per non parlare delle odierne metamorfosi inquietanti di un antisemitismo che si nega come tale declinandosi falsamente come “antirazzismo”.

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