di Fiona Diwan
Tra antisemitismo e identità ebraica: la ‘frattura’ tra i due maestri della Psicoanalisi
“Un sogno non interpretato è come una lettera non letta”: il celeberrimo adagio talmudico aleggiava tra le pareti di casa fin da quando Sigmund era bambino, in Galizia. Diventato adulto, com’è noto, il detto avrebbe messo radici ben salde, declinandosi in senso scientifico: in sogno, idee e pensieri premono per venire a galla e possono rivelarci cose fondamentali su noi stessi, ipotizzava Freud nell’Interpretazione dei sogni, uscita nel 1899. Ovviamente, il parallelismo tra il metodo introdotto da Freud e la tecnica interpretativa del Midrash non poteva sfuggire all’amico Karl Abraham né tantomeno a tutti i sodali e colleghi di origini ebraiche che ogni mercoledì si riunivano nel salotto di casa del maestro, in Berggasse 19 a Vienna. Un procedimento ermeneutico messo a punto in secoli di studi delle Scritture ebraiche e che individua quattro livelli di lettura (il famoso Pardes), come ci spiega oggi, nell’incipit del suo saggio (S. Freud, C. G. Jung, Sabina Spielrein e la “faccenda nazionale ebraica”, Bollati Boringhieri), lo studioso David Meghnagi, docente di Psicologia clinica, Psicologia Dinamica e Psicologia delle religioni all’Università Roma Tre.
Tra identità ebraica e un clima di violento antisemitismo, Meghnagi ci racconta l’avvio di un’amicizia che diventerà uno scontro insanabile tra i due maestri della psicoanalisi. Una frattura intorno a cui prenderà corpo la vicenda della giovane e appassionata Sabina Spielrein, ebrea ucraina approdata a Vienna, paziente e poi amante di Jung, che Freud accoglierà in seguito, come studiosa, nel gruppo viennese. Spielrein fu indubbiamente una figura-ponte tra i due uomini, a lei Freud riconoscerà il merito, come psicoterapeuta, di aver intuito il legame tra pulsione distruttiva e pulsione sessuale, il dualismo tra eros e thanatos.
Nel saggio, David Meghnagi si sofferma su alcuni episodi chiave: c’è Freud che apre le porte del suo salotto di casa a un giovane e ambizioso Jung in cerca di conferme; ci sono i ripetuti viaggi fatti da Freud a Roma, letteralmente ipnotizzato dal Mosè di Michelangelo, una visione che avrà il sapore di una rivelazione; ci sono le voci di colleghi e allievi (Karl Abraham, Sandor Ferenczi, Erich Neumann...), con le loro contraddizioni e dubbi. Meghnagi “rilegge” il carteggio tra Freud e Jung alla luce del Diario e delle Lettere di Sabina Spielrein, interpreta in filigrana umori e passioni, ripropone scambi di considerazioni e di idee, in un viaggio nei meandri di una pagina formidabile della storia del movimento psicoanalitico.
Un saggio scientifico, documentato, corredato da un imponente apparato di note in cui ogni virgolettato fa riferimento al carteggio e alla fonte da cui è stato tratto. Molto accurata la ricostruzione del dibattito intorno alla questione ebraica e del fondale storico dentro cui prende corpo la psicosi antisemita che finirà per travolgere il milieu freudiano: David Meghnagi delinea così in modo efficace il crescendo di angosce e preoccupazioni del mondo ebraico, nonché la posizione di Jung verso gli ebrei e l’antisemitismo, vissuta sul filo dell’ambiguità.
E poi il legame tra Freud e Jung, un’amicizia che, al di là delle divergenze di metodo e di approccio, al di là delle rivalità, andrà a infrangersi sugli scogli di un pregiudizio antiebraico che nei primi decenni del Novecento avvelena l’intera società civile occidentale e il dibattito pubblico. Un testo approfondito, corredato da un apparato a dir poco “mostruoso” di riferimenti, note, bibliografia, ma con ampie pagine godibili anche per un lettore generalista che volesse saperne di più sulla relazione tra i due maestri e sulle tensioni e fratture del movimento psicanalitico. Rivalità, ambizioni, gelosie, incomprensioni che “finirono per assumere i connotati di uno scontro religioso”, scrive Meghnagi nel Prologo.
Resta il fatto che, nonostante le divergenze, almeno fino al 1913 (l’anno della rottura), Freud e Jung collaborarono intensamente e furono un creativo e formidabile punto di riferimento l’uno per l’altro: a tal punto che, com’è noto, Freud avrebbe voluto fare di Jung il proprio “principe ereditario” se non fosse stato per l’ossessione antisemita dell’epoca che si intrecciò con la dimensione personale (nonchè con le profonde divergenze di approccio che stavano emergendo).
Non va dimenticato che nella sua prima fase, la psicoanalisi era stata oggetto di un violento ostracismo e pregiudizio, un’identificazione come scienza ebraica che Freud voleva evitare a tutti i costi e che avvertiva come un pericolo. Che la psicoanalisi fosse percepita come “una faccenda ebraica” fu per Freud una preoccupazione costante, nel clima di parossismo antiebraico di quegli anni. Quanto al giovane Jung, in quei primi decenni del secolo erano già emersi gli ingredienti che lo avrebbero opposto a Freud, “incluso lo stereotipo antisemita già in voga di una presunta «giudeizzazione» della scienza, da cui bisognava liberarsi”. Per formazione culturale, visione della scienza e del mondo, Freud e Jung erano quanto di più lontano potesse esserci e forse qui sta una delle ragioni dell’attrazione che per un certo periodo ebbero l’uno per l’altro, sottolinea Meghnagi. Nel gioco delle ambivalenze e dei pregiudizi personali irrisolti, si inserisce l’intera vicenda della “nube di fango, sangue e fetore” che sta per abbattersi sull’Europa: una pagina nera sulla quale Jung non prese posizione neppure dopo la Kristallnacht, non provando mai un grammo di compassione o empatia per quanto accadeva agli amici e colleghi ebrei.
Affabilità personale e insensibilità morale: di questo sarà accusato Jung, in un instabile equilibrio tra pregiudizio razzial-religioso e incapacità di valutare quanto stava accadendo nelle strade di Vienna e Berlino. Solo nel dopoguerra Jung ammetterà di aver preso un abbaglio (soltanto col saggio su Wotan i pericoli del nazismo verranno da lui evidenziati).
Forse, finalmente, anche Jung aveva compreso che, come scrive il poeta francese Maurice Blanchot, “fu la persecuzione nazista a farci sentire che gli ebrei erano i nostri fratelli e l’ebraismo qualcosa di più che una cultura e una religione ma il fondamento delle nostre relazioni con gli altri”.
David Meghnagi, S. Freud, C. G. Jung, Sabina Spielrein e «la faccenda nazionale ebraica»



