L’Italia è tra i sei Paesi che aderiscono al Consiglio per la Pace di Trump a Gaza

Mondo

di Nina Prenda
Rappresentanti di Egitto, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito, Italia e Germania sarebbero pronti a sedere accanto al presidente Donald Trump nell’organismo pensato per accompagnare l’uscita dalla fase iniziale del cessate il fuoco.

Gli Stati Uniti assicurano di aver già incassato l’adesione di Egitto, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito, Italia e Germania al Consiglio di Pace che dovrebbe supervisionare la gestione di Gaza nel dopoguerra. Secondo quattro funzionari a conoscenza diretta del dossier, citati dal Times of Israel, i leader di questi Paesi sarebbero pronti a sedere accanto al presidente Donald Trump nell’organismo pensato per accompagnare l’uscita dalla fase iniziale del cessate il fuoco.

Si tratta di un piano che punta a conferire legittimità internazionale al piano di Trump per Gaza coinvolgendo attori chiave del Medio Oriente e dell’Europa. L’ingresso nel Consiglio, tuttavia, non equivale a un sostegno pieno e automatico all’intera architettura del piano. Fonti statunitensi, israeliane e diplomatiche arabe sottolineano come ogni Paese mantenga riserve su finanziamenti, invio di truppe o altre forme di impegno operativo.

L’obiettivo di Washington è quello di ampliare il perimetro del Consiglio fino a includere una dozzina di leader, rafforzandone il peso politico e aumentando le possibilità di contributi concreti sul terreno. In questo quadro, gli occhi restano puntati su Riyad e Ankara. Tra i nomi in cima alla lista figurano il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Nessun commento ufficiale è arrivato finora dal Dipartimento di Stato né dalle capitali coinvolte.

Trump ha espresso pubblicamente la propria aspettativa di vedere bin Salman nel Consiglio durante la visita del leader saudita a Washington il mese scorso. Secondo le fonti, tuttavia, Riyad preferisce attendere maggiore chiarezza sull’evoluzione della situazione a Gaza, dove il cessate il fuoco siglato il 9 ottobre resta fragile.

Se l’Arabia Saudita viene considerata un’aggiunta preziosa, il dossier turco resta politicamente sensibile. Israele continua a opporsi al coinvolgimento diretto di Ankara nella gestione del dopoguerra, in particolare nella futura Forza di Stabilizzazione Internazionale (ISF) destinata, nei piani statunitensi, a sostituire progressivamente la presenza dell’esercito israeliano nella Striscia. Secondo un funzionario israeliano, la pressione americana su Gerusalemme è destinata ad aumentare nelle prossime settimane, con l’obiettivo di superare il veto israeliano attraverso un compromesso che limiti il ruolo turco ai livelli decisionali, escludendo una presenza militare sul terreno.

Il nodo irrisolto della Forza di Stabilizzazione

Molto più complessa si sta rivelando la costruzione dell’ISF rispetto alla definizione del Consiglio di Pace. I Paesi potenzialmente coinvolti chiedono garanzie sul mandato della forza e manifestano preoccupazioni per le condizioni di sicurezza a Gaza. Per rispondere a questi timori, il Comando Centrale degli Stati Uniti ha convocato nei giorni scorsi una conferenza a Doha, illustrando cinque possibili modalità di contributo: truppe, forze di polizia, supporto logistico, addestramento delle forze palestinesi o finanziamenti.

Nonostante i chiarimenti su dimensioni, struttura e catena di comando, resta irrisolta la questione più delicata: il disarmo di Hamas. La risoluzione promossa dagli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU affida all’ISF il compito di “assicurare” la smilitarizzazione di Gaza, ma Washington avrebbe chiarito che la forza non entrerà inizialmente nella parte occidentale della Striscia, la cosiddetta “zona rossa”, tuttora sotto il controllo di Hamas.

In una prima fase, l’ISF dovrebbe disporsi lungo la Linea Gialla, da cui Israele si è ritirato all’inizio del cessate il fuoco, assumendo il controllo di circa il 53% del territorio. Gli Stati Uniti non prevedono scontri diretti con Hamas, confidando invece in un processo graduale di disarmo concordato. Un’ipotesi che, secondo fonti arabe, è ancora lontana da una reale definizione e vede un coinvolgimento statunitense finora limitato.

Roma è disponibile ma chiede garanzie

In questo quadro, l’Italia ha rinnovato la propria disponibilità a contribuire all’ISF con Carabinieri ed Esercito, confermando indiscrezioni della stampa nazionale rivelate da La Repubblica. Anche Roma, tuttavia, chiede maggiore chiarezza sul mandato prima di formalizzare l’impegno, così come Azerbaigian e Indonesia.

Washington punta a una nuova conferenza a metà gennaio, ma il pessimismo è diffuso sulla possibilità di un dispiegamento dell’ISF già nello stesso mese. Il calendario politico appare in ritardo: l’annuncio della seconda fase del cessate il fuoco è stato rinviato e il presidente Trump ha indicato l’inizio del nuovo anno come nuovo obiettivo.

Un passaggio chiave sarà l’incontro tra Trump e il premier israeliano Benjamin Netanyahu, previsto il 29 dicembre a Mar-a-Lago. Secondo le fonti, dal vertice potrebbero arrivare indicazioni decisive per sciogliere le riserve dei Paesi coinvolti.

Tensioni sul cessate il fuoco e sul ruolo di Hamas

Israele, intanto, respinge l’idea di un disarmo graduale di Hamas e subordina qualsiasi ulteriore ritiro delle proprie forze alla restituzione del corpo dell’ultimo ostaggio, Ran Gvili. Le ricerche da parte di Hamas e della Jihad islamica palestinese avrebbero subito un rallentamento dopo i recenti raid israeliani, incluso l’attacco che ha ucciso il comandante di Hamas Raed Saad, definito privatamente da Washington una violazione del cessate il fuoco.

Infine, sebbene Gerusalemme guardi con diffidenza alla presenza del Qatar nel Consiglio di Pace, riconosce di non poter bloccare ogni aspetto del piano americano. Del resto, il Consiglio avrebbe un ruolo prevalentemente simbolico. La gestione operativa sarebbe affidata a un comitato esecutivo ristretto, composto dall’inviato speciale degli Stati Uniti in Medio Oriente Steve Witkoff, dal funzionario statunitense Jared Kushner, dall’ex primo ministro del Regno Unito Tony Blair e dall’ex membro del Parlamento Europeo Nickolay Mladenov, affiancati da figure di spicco del mondo economico statunitense.