di Nina Deutsch
La sera del 15 dicembre 2025, sulla spiaggia di Tel Aviv, si è tenuta una veglia con candele, preghiere e omaggi alle vittime dell’attentato di Bondi Beach, a Sydney. I partecipanti hanno acceso candele disposte a formare una Stella di David e sventolato bandiere israeliane e australiane per onorare i morti e i feriti. Persone di ogni età si sono radunate poche ore dopo la strage australiana, per ricordare le vittime e pregare insieme.
Il cielo di Tel Aviv si è tinto di luci tremolanti. Sulla spiaggia, davanti all’orizzonte infinito, migliaia di persone si stringono in silenzio: le mani reggono candele accese, gli occhi sono lucidi, i volti seri, segnati da un dolore profondo. Poi arrivano le parole, le canzoni, le preghiere – un rito collettivo di unione e condivisione, attraversato da un messaggio potente e semplice insieme. Anche nel buio più profondo, la luce può – e deve – resistere.
Anche dopo il 7 ottobre. Anche dopo un’altra ferita inferta al cuore di Eretz Israel e della diaspora. Il dolore non si spegne, ma la memoria resta viva: fragile, dolorosa, imprescindibile. E nel silenzio di Tel Aviv, tra le lacrime e gli abbracci, affiora un unico, profondo desiderio: che nessuna famiglia debba mai più accendere una candela per un simile motivo.
Non è una festa, non è una protesta: è memoria, è lutto. È l’urlo silenzioso di una comunità – e di una comunità globale – ancora sbigottita, che sente nel sangue una ferita aperta da anni di violenza e odio. Qui, a Tel Aviv, si commemorano ancora una volta vite spezzate: i quindici innocenti uccisi nella tragica sparatoria di Bondi Beach, durante la celebrazione di Channukà, la festa delle luci che avrebbe dovuto essere un tempo di gioia, di famiglia, di tradizione.
Lo sdegno è unanime. Un attacco definito antisemita, un’esplosione di odio che ha colpito giovani e anziani, rabbini e bambini, ferendo il cuore di intere comunità. Anche chi non conosceva personalmente le vittime avverte un nodo alla gola, una ferita che riapre cicatrici mai del tutto rimarginate. Ogni candela accesa è una promessa: non dimenticheremo.
Le immagini parlano da sole: uomini e donne avvolti nei cappotti dell’inverno mediterraneo, volti illuminati dal tremolio delle fiamme, sussurri di preghiere, abbracci che cercano di colmare un vuoto. È la concretezza del dolore umano, senza slogan né retorica. È dolore puro, condiviso, tangibile.
E mentre le ombre delle candele danzano sulla sabbia umida, emergono domande che nessuna commemorazione può cancellare: come può l’orrore ripetersi ancora nel nostro tempo? Come può l’antisemitismo, dopo tutto ciò che la storia ha già mostrato, trovare ancora spazio nella mente e nel cuore di qualcuno? È un male antico che si traveste da modernità: non semplice ignoranza, non sola follia, ma il ritorno tossico di paure e pregiudizi mai davvero sconfitti.
A Tel Aviv non ci sono solo israeliani. Ci sono amici, alleati, persone di fedi e culture diverse, raccolte nello stesso luogo. È questa la risposta più forte all’odio: unità nella vulnerabilità, solidarietà nella sofferenza. Qui il dolore diventa pensiero, e il pensiero rifiuto di ogni forma di discriminazione e di violenza cieca.


