di Ugo Volli
[Scintille. Letture e riletture] Uno dei temi più delicati della storiografia ebraica è il rapporto con il cristianesimo delle origini e con la figura del suo fondatore. Ormai è chiaro che la “separazione delle strade” fra le due religioni non avvenne di colpo al momento della predicazione di Gesù o dei suoi allievi più prossimi, ma per molti decenni e perfino per alcuni secoli, quasi fino al Concilio di Nicea (325 EV) rimasero sovrapposizioni e ambiguità.
Sempre più studiosi si interrogano; scontate le differenze, quali sono i caratteri di continuità che hanno permesso questa convivenza iniziale in una relazione che sarebbe stata poi duramente repressiva per due millenni? Quali sono stati i rapporti fra le diverse correnti in cui era diviso l’ebraismo e il cristianesimo? Com’è avvenuto che quest’ultimo si sia contrapposto violentemente alla tradizione ebraica che all’inizio voleva solo riformare?
Su questi temi c’è una vastissima bibliografia, peraltro in grandissima maggioranza scritta dal punto di vista cristiano e orientata a una visione teologica e religiosa, assai più che storico-politica, anche se la vera crisi che dovette affrontare il popolo ebraico nel secolo successivo all’uccisione di Gesù fu l’implacabile assalto coloniale dei romani, la distruzione di Gerusalemme e del Tempio, il genocidio perseguito dal potere imperiale.
È comunque interessante indicare al lettore due analisi della questione da un punto di partenza ebraico. Il libro più recente è quello di Israel Knohl, La disputa messianica, appena pubblicato da Adelphi. L’autore sostiene che fin dall’ottavo secolo AEV ci siano state nella tradizione due correnti: una monarchica (per esempio Isaia e Geremia) che dava un ruolo semidivino ai re di Israele, cui si sarebbe aggiunta poi la credenza nella resurrezione dei morti; e una antimonarchica che non credeva neppure alla resurrezione (per esempio Osea).
Della prima linea sarebbero stati eredi i farisei, della seconda i sadducei; questi ultimi sarebbero responsabili esclusivi della condanna delle pretese messianiche di Gesù e del movimento cristiano, mentre i primi non vi avrebbero aderito ma l’avrebbero visto con indulgenza, condividendone il principio. Knohl aderisce a una versione estrema dell’”ipotesi documentaria” sulle origini della Bibbia e si basa su interpretazioni altrettanto controverse di versetti dei profeti; senza poterlo argomentare qui, devo dire che non mi convince.
Più persuasiva, dal mio punto di vista è l’analisi di Hyam Maccoby, di cui recentemente Massari Editore ha pubblicato tre libri: Paolo creatore del mito e l’invenzione del Cristianesimo (2018), Giuda Iscariota e il mito della perfidia ebraica (2021), Rivoluzione in Giudea (2021). Anche Maccoby considera i sadducei responsabili della condanna di Gesù, ma in quanto agenti dei romani, perché Gesù sarebbe stato, come altri nel suo tempo, a capo di un movimento di resistenza alla colonizzazione di Roma, e aspirava al riconoscimento come re (di qui “unto”, cioè mashiach). Né lui né i suoi allievi diretti avrebbero avuto l’intenzione di uscire dall’ebraismo, ma solo di restaurare il regno di Davide. Il vero fondatore del cristianesimo sarebbe Paolo, della cui origine ebraica Maccoby dubita, non allievo dei farisei come sostiene, ma agente dei sadducei e dunque dei romani. La distruzione del Tempio e il genocidio perpetrato dai romani avrebbero travolto questi “nazareni” (giudeo-cristiani) e lasciato libero campo al cristianesimo anti-ebraico di Paolo: una ricostruzione per molti versi sorprendente, ma sostenuta da una larga analisi delle fonti ebraiche e cristiane.



