di Fiona Diwan
«Più a lungo l’antisemitismo rimane latente, più violenta sarà la sua deflagrazione». Così scriveva Theodor Herzl nel 1896 nel suo Der Judenstaat, Lo stato degli ebrei, il testo che fondava il sionismo politico, e mai affermazione si è rivelata oggi più vera davanti a un incredulo mondo ebraico che a 80 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale si è ritrovato sotto choc davanti a una nuova esplosione di violenza e pregiudizio.
“Ovunque siamo stati cittadini leali, inutilmente, come lo furono gli ugonotti costretti a emigrare… Non penso che ci lasceranno in pace… il potere degli ebrei, vero o presunto che sia, suscita strepiti rabbiosi ed esasperati…”, scrive Herzl nel suo mitico pamphlet. A fine Ottocento il numero di matrimoni misti è altissimo, molti credono che con l’assimilazione si possa risolvere la “questione ebraica” e porre fine al pregiudizio e alle sofferenze degli ebrei ma Herzl non è d’accordo, crede che il progetto di assimilazione abbia clamorosamente fallito e cerca un’altra risposta.
Rileggere oggi questo breve e leggendario testo – tradotto ex novo da Daniele Scalise, edito da SeferOttobre (disponibile su Amazon) – è per certi versi sconvolgente: per il suo slancio universalistico e visionario, per la sua carica “messianica” e redentiva, per il progetto di riscatto sociale e economico preconizzato per le masse ebraiche d’Europa.
Da liberale qual è, Herzl ha molto a cuore anche la causa del proletariato ebraico reso fluttuante da pogrom e continue migrazioni: un problema che sarebbe risolto con uno Stato degli ebrei, scrive. Uno Stato che dovrà essere concepito secondo un modello inclusivo, democratico, multireligioso (coltiva l’idea che lo Stato degli ebrei sia addirittura un Bene per l’umanità intera portando vantaggi e benessere ovunque).
La visione di Herzl è straordinariamente elaborata, complessa, molto concreta, prevede una organizzazione sociale, politica, un itinerario diplomatico da compiere, la costruzione di infrastrutture civili, progetti immobiliari, una giornata lavorativa di 7 ore per 5 giorni la settimana (le famose 35 ore). C’è qui un grande slancio utopico e di riscatto sociale per le masse deprivate, i bisognosi, i diseredati e Herzl sa che tra i suoi principali detrattori ci sarà l’agiata e benestante borghesia ebraica poco disposta ad abbandonare conquiste sociali faticosamente ottenute (“chi è stato a lungo prigioniero non lascia volentieri la sua prigione”, scrive).
Herzl è sotto choc per l’affare Dreyfus e sottolinea che l’uguaglianza giuridica di cui godono gli ebrei è solo formale e vanificata nei fatti. Il pregiudizio e la pressione sociale a cui sono sottoposti gli ebrei, ricchi o miserabili che siano, è insostenibile e provoca disagio, oppressione, marginalizzazione. Herzl lo constata con lucidità estrema, un disincanto totale circa il favore concesso da regnanti, principi o governanti la cui protezione è sempre in bilico, un disincanto anche rispetto a un possibile riscatto attraverso la lotta sociale o di classe, battaglia che, al contrario, inevitabilmente si combatterà sulla pelle degli ebrei, sia in ambito capitalistico sia socialista.
Herzl scommette sul potere delle idee (“Nessuno è così forte o ricco da spostare un popolo da un luogo all’altro, solo una idea può riuscirci e l’idea di uno Stato possiede questa forza”). Teocrazia? No! Se la fede ci tiene uniti, la scienza ci rende liberi, scrive. Herzl postula una divisione netta tra Stato, Esercito e Rabbinato. “Abbiamo imparato la tolleranza e la coltiveremo”, scrive. Quale sarà la lingua dello Stato? Prevarrà quella che è parlata di più, afferma. Lo Stato degli ebrei sarà una Repubblica aristocratica ispirata alla Serenissima, alla repubblica di Venezia, con un Consiglio dei Dieci o forse di più… Infine, delizioso è il capitoletto dedicato alla piccole abitudini che ciascun ebreo migrante si porterà dietro nella nuova terra e che inevitabilmente farà fatica ad abbandonare: “Se dovessimo ancora una volta lasciare Mitzraim, non dimenticheremo le nostre pentole di carne”.



