“Nessuno ci ha visti partire”: una storia vera della serie Netflix svela l’anima nascosta della comunità ebraica del Messico

Spettacolo

di Marina Gersony
La miniserie ispirata al memoir di Tamara Trottner racconta il rapimento suo e di suo fratello da parte del padre negli anni ’60, il dramma della madre e la sua capacità di ribellarsi e il ruolo della comunità ebraica ashkenazita, tra patriarcato, controllo sociale, rispettabilità, fuga internazionale e il sogno dei kibbutz israeliani.

 

Da ottobre, Netflix ci trascina nel cuore di Nessuno ci ha visti partire (Nadie nos vio partir – No One Saw Us Leave), miniserie che ha già conquistato un pubblico internazionale. Tra vicende intime e tensioni familiari, il racconto ci immerge nella comunità ashkenazita di Città del Messico degli anni Sessanta, una delle più coese e influenti dell’America Latina: un mondo sospeso tra modernità e tradizione, tra prestigio sociale e rigidi codici interni, dove ogni gesto e ogni scelta portano il peso di regole invisibili ma ferree. La serie non è solo un viaggio nel tempo e nello spazio: è una porta aperta sulle comunità ebraiche della diaspora, una scoperta di storie, come questa, spesso sconosciute all’interno della grande mishpacha globale.

Tratta dal memoir di Tamara Trottner, giornalista e scrittrice messicana oggi 61enne, la serie racconta la sua infanzia segnata da un rapimento familiare che divenne un caso internazionale. Protagonista è Valeria Goldberg, interpretata da una intensa Tessa Ía, giovane madre appartenente all’alta borghesia ebraica messicana. Da un giorno all’altro, i suoi figli le vengono sottratti dal marito Leo Saltzman (Emiliano Zurita), a sua volta dominato dall’ingombrante figura del padre (Juan Manuel Bernal). Ferito dall’infedeltà di Valeria con il cognato Carlos (Gustavo Bassani), Leo fugge con i bambini attraverso mezzo mondo, sostenuto dal silenzio – o dal timore – della comunità.

Il Messico ebraico degli anni ’60: un microcosmo chiuso, potente, sorvegliato da vecchie ferite

Per capire la forza narrativa della serie, un thriller di cinque episodi, occorre guardare al contesto. Negli anni Sessanta la comunità ebraica ashkenazita di Città del Messico era composta da poche migliaia di famiglie, unite da un forte senso di identità, dall’eredità dei pogrom europei e dalla necessità di proteggersi in un Paese cattolico e conservatore. Ancora oggi, secondo alcuni studiosi, solo il 3% degli ebrei messicani si sposa al di fuori della comunità: un retaggio di quella stessa compattezza che la serie mostra con precisione.

Nel racconto di Nessuno ci ha visti partire, che prende alcune libertà narrative, emerge una tensione sotterranea in cui onore familiare e rispettabilità pesano più della verità. Valeria, isolata e stigmatizzata, affronta il suocero che tenta di metterla contro la comunità, oltre all’ex marito e alla narrazione manipolatoria che lui diffonde: una moglie instabile, una madre inadatta, un pericolo per i figli. Questa strategia riflette le paure della comunità: qualunque scandalo, anche privato, potrebbe esporre gli ebrei messicani a un antisemitismo percepito come ancora possibile.

Una fuga tra Parigi, Italia, Sudafrica e Israele: il viaggio che diventa identità

La miniserie segue Leo e i bambini in una rocambolesca fuga – Parigi, un castello italiano, il Sudafrica dell’apartheid – fino a Israele, dove trova rifugio in un kibbutz. Qui la serie apre uno dei suoi capitoli più affascinanti: la vita comunitaria dei kibbutz degli anni ’60, laboratori di socialismo sperimentale in cui i bambini crescevano collettivamente e chiamavano i genitori per nome.

Per Leo, socialista convinto, il kibbutz rappresenta un ideale politico e morale, un luogo dove ricominciare lontano dal giudizio della sua ricca famiglia. Per i bambini, invece, è un universo straniero, a metà tra un senso di sicurezza e di un profondo spaesamento. Per Valeria, diventa una tappa obbligata nel suo viaggio di madre ferita, mentre attraversa le comunità israeliane alla ricerca dei figli. Un percorso che mostra una donna capace di infrangere confini geografici, culturali e religiosi pur di ricostruire ciò che le è stato tolto.

Il peso del patriarcato e la voce della memoria

Se il thriller del rapimento regge la tensione narrativa, Nessuno ci ha visti partire è soprattutto un racconto sul patriarcato incarnato da due famiglie potenti e dalla struttura sociale della comunità ebraica. Le madri spesso sono intrappolate tra ruolo pubblico e vita privata, mentre gli uomini decidono, coprono, giudicano.

È questo nodo – più che la fuga o la vendetta – che la serie indaga con intensità: la capacità di una donna di ribellarsi alle narrazioni imposte dagli altri. Il cast, ricco di interpreti messicani di primo piano, sostiene questa visione corale: accanto a Tessa Ía ed Emiliano Zurita troviamo Ilse Salas, Ari Brickman (un ex agente del Mossad che aiuta Valeria) e Juan Manuel Bernal nel ruolo del patriarca Saltzman, figura chiave dell’equilibrio di potere interno alla comunità.

La verità dopo il silenzio

Il finale riporta la storia alla realtà: il tribunale israeliano ordina il rientro in Messico, e solo anni dopo i figli riescono a elaborare ciò che hanno vissuto. Tamara Trottner, ormai adulta, trasforma il trauma in letteratura: Nadie nos vio partir non è solo un memoir, ma un atto di giustizia verso sua madre e tutte le donne degli anni ’60 senza voce; è anche la cronaca di una comunità che lotta con i propri codici, fragilità e un passato ingombrante.

L’anno scorso Trottner ha pubblicato il secondo memoir, Pronunciaré sus nombres, la storia dei suoi nonni materni durante l’Olocausto e un nuovo capitolo dell’album familiare aperto con Nadie nos vio partir: Moishe e sua moglie, due giovani ebrei costretti a fuggire dalla Russia zarista e poi dall’Europa minacciata dai nazisti, attraversano la caduta dei Romanov, la Rivoluzione russa e anni di fame, paura e resistenza. Un viaggio che diventa storia di speranza, rinascita e ricerca di identità, riflesso delle radici e delle ferite che ancora attraversano la sua famiglia.