di Nathan Greppi
Gli avvenimenti degli ultimi due anni hanno messo a dura prova non solo Israele, ma anche gli ebrei della Diaspora e tutti coloro che, anche se non ebrei, si sentono vicini alle ragioni del popolo ebraico.
Tra coloro che hanno tenuto la barra dritta in difesa d’Israele, quando altri restavano in silenzio o si giravano dall’altra parte per conformismo, c’è Alessandro Litta Modignani: già esponente del Partito Radicale, per il quale è stato consigliere regionale della Lombardia dal 2000 al 2005, collaboratore del quotidiano Il Foglio dove scrive recensioni di libri; dal 2017 è il presidente dell’AMPI (Associazione Milanese Pro Israele).
In questi due anni, che tipo di iniziative ha svolto l’AMPI per fare contro-informazione?
Dopo il 7 ottobre, abbiamo cercato di coordinarci di più con la comunità ebraica, l’Associazione Setteottobre nata di lì a poco e l’associazione Amici di Israele. Cerchiamo di resistere all’ondata di disinformazione che ha investito l’Italia e tutte le democrazie occidentali.
Come giudichi il lavoro svolto in questi due anni?
L’associazionismo pro-Israele, fortunatamente, ha reagito ed è vivo. Per fare squadra, la nostra associazione, da autonoma che era, ha aderito alla Federazione delle Associazioni Italia-Israele. Poi, certo, ci troviamo in una situazione di difficoltà estrema come mai prima d’ora. Ci sono stati altri momenti di isolamento e grande ostilità nei confronti d’Israele, come nel 1982 o ai tempi della Seconda Intifada, ma niente di paragonabile a quello che si è creato in questi due anni.
Di recente sei stato in più occasioni su Rete 4, ospite di Paolo Del Debbio. Come giudichi il modo in cui i talk televisivi hanno trattato la guerra?
È difficile nei talk show cercare di riequilibrare la situazione, quando hai una maggioranza urlante nel Paese che ti grida contro. Non riesci a parlare quando il mondo urla. Quello che ho cercato di fare io su Rete 4, avendo ogni volta solo due minuti a disposizione, è rovesciare la narrativa del “genocidio” e della “Palestina libera dal fiume al mare”.
Ti sei impegnato molto anche a favore dell’Ucraina, con l’Associazione Ponte Atlantico. Quale filo conduttore vedi tra la difesa d’Israele e la difesa dell’Ucraina?
Ponte Atlantico è un’associazione liberale, europeista e atlantista, che ho voluto creare con altri amici perché non volevo limitarmi alla difesa d’Israele, ma allargarla alla difesa dell’Occidente in generale. È una battaglia comune delle democrazie occidentali contro gli Stati autoritari, che formano una coalizione evidentissima: Putin sostiene Hamas ed è alleato dell’Iran, e quest’ultimo fornisce alla Russia i droni con i quali viene bombardata l’Ucraina.
Con la firma della tregua, come pensi che cambierà la situazione?
Partiamo dal piano Trump. Quello che apprezzo è che gli ostaggi sono tornati a casa e siamo arrivati ad una tregua. Il secondo punto è quello di disarmare Hamas, ma su questo il piano di pace si è incagliato. Non mi sento di fare nessuna previsione, perché bisognerà vedere in che misura i vari attori dell’area mediorientale intendono intervenire nella situazione e che ruolo avranno. Personalmente, non mi fido del Qatar, che sponsorizza i Fratelli Musulmani, né della Turchia di Erdogan. Anche perché, essendo figlio di madre armena, non mi fido della parola dei turchi.
A proposito delle tue origini armene, ad agosto Netanyahu ha detto di voler riconoscere il genocidio armeno, in un’intervista all’influencer americano Patrick Bet-David. Speri che prima o poi Israele riconosca ufficialmente il genocidio armeno?
Che Israele non abbia ancora ufficialmente riconosciuto il genocidio armeno è qualcosa che mi addolora molto, come armeno da parte di madre e come amico d’Israele. Finora non l’ha fatto per una politica d’intesa con la Turchia, sul piano della cooperazione politica e militare; questa aveva senso negli anni passati, ma ora che Erdogan ha assunto una posizione così ostile, non si capisce perché Israele esiti ancora a compiere questo doveroso passo.



