di Davide Cucciati
Amit Segal, uno dei più influenti commentatori politici Israele e volto noto di Channel 12, ha affidato a una lunga serie di post su X la propria analisi sul recente accordo tra Israele e Hamas per la liberazione dei rapiti israeliani.
My initial thoughts on the deal.
There’s no phase two. That’s clear to everyone, right? Phase two might happen someday, but it’s unrelated to what’s just been signed.
The deal signed now is a hostage release deal. It doesn’t imply anything about the future. Theoretically,… pic.twitter.com/xy89BIGdNl
— Amit Segal (@AmitSegal) October 9, 2025
Le sue parole sono chiare e prive di ambiguità: “Non c’è una fase due. È chiaro a tutti, vero? La fase due potrebbe avvenire un giorno ma non ha nulla a che fare con quanto appena firmato.”
Inoltre, il giornalista israeliano ha precisato che “questa non è pace. Quando sento dire che Israele sta ‘facendo pace con i nemici’ percepisco nell’aria l’odore di Oslo e le implicazioni che comporta”.
Per Segal, l’intesa è esclusivamente mirata alla liberazione degli ostaggi. Tutto il resto, dalle forze arabe sul terreno a ipotetici governi internazionali per Gaza, resta confinato al piano delle “fantasie che potrebbero avverarsi”: “Emiratini e alleati che smantellano i tunnel, un organismo internazionale, Tony Blair che governa Gaza. Tutto questo potrebbe accadere in teoria ma non rientra negli attuali negoziati in corso.”
“Quello che abbiamo ora è un accordo sugli ostaggi e una tregua mentre i colloqui continuano in buona fede.”
Ma chi stabilisce se queste trattative stiano avvenendo davvero in buona fede? Segal ricorda che già in passato Israele aveva sospeso i negoziati per mancanza di fiducia, riprendendo le ostilità. “Sotto Trump, Israele in passato ha detto: ‘I colloqui non sono autentici o produttivi’, e ha ripreso i combattimenti. Ma questa volta non credo che vedremo i carri armati dell’IDF rientrare a Gaza, come accaduto alla fine delle ultime due cessate il fuoco.”
Il “modello libanese” e l’analisi di Milshtein
Il punto centrale dell’analisi riguarda quella che Segal descrive come una possibile evoluzione strategica: l’adozione del cosiddetto “modello libanese”. Non una scelta ideologica ma uno scenario operativo già noto: nessuna occupazione stabile della Striscia ma libertà di azione per colpire dall’esterno qualunque minaccia venga rilevata: “La grande domanda è: ci stiamo muovendo verso il modello libanese menzionato da Israele? In altre parole, l’IDF rimane oltre il confine internazionale e colpisce bersagli dall’aria quando rileva minacce.”
Questa visione ricorda da vicino l’analisi proposta da Michael Milshtein nell’intervista rilasciata a Mosaico nel mese di settembre 2025. Milshtein, colonnello in congedo e direttore del Palestinian Studies Forum all’Università di Tel Aviv, aveva identificato il “modello Libano” come un’opzione realistica, alternativa a un’occupazione totale di Gaza da lui definita “drammatica e disastrosa su ogni fronte”. Allora Milshtein parlava in termini ipotetici. Oggi, con le parole di Segal, quello scenario si sta concretizzando, almeno nella prassi militare, pur senza ancora essere definito politicamente come tale.
Tornando all’attualità, Segal fornisce anche un dettaglio tecnico sul ritiro militare previsto: “L’IDF si ritirerà fino alla linea del 53%.” Il principio su cui si baserebbero i prossimi negoziati è quello, già più volte evocato, di uno scambio tra smilitarizzazione e ritiro israeliano. Ma anche qui, Segal resta scettico: “Ovviamente tutti presumiamo che Hamas non si disarmerà volontariamente e che nemmeno gli Emiratini e le altre forze internazionali lo faranno in tempi rapidi.”
Il confronto con gli altri piani internazionali
Segal affronta poi un nodo politico emerso con forza nel dibattito interno israeliano: il confronto tra l’accordo attuale e quelli proposti in passato, specialmente dagli Stati Uniti.
“C’è una nuova narrazione secondo cui ‘in sostanza, tutto ciò che è successo è che Trump si è stancato, ha preso il controllo e l’ha imposto a Netanyahu ed è praticamente lo stesso accordo che si poteva raggiungere un anno fa. Con l’implicazione inquietante, orribile da dire, che i soldati dell’IDF sono morti invano per qualcosa che era già stato ottenuto.” Segal rifiuta questa lettura e propone di rileggere punto per punto i piani americani precedenti: “Ad esempio, il piano Biden del 1° giugno 2024, accolto con entusiasmo e successivamente persino attribuito a Netanyahu. Ma bisogna sottolineare la differenza. Nella prima fase, l’IDF si sarebbe già ritirato grosso modo dalla posizione attuale e si parlava solo di rilascio degli ostaggi ‘umanitari’. Come se non fossero tutti umanitari. Poi si passava alla fase del rilascio degli ostaggi vivi ma con il ritiro totale dell’IDF da tutta Gaza, fino all’ultimo centimetro, mentre i corpi dei morti restavano nella Striscia. È una differenza come il giorno e la notte. Qui invece stanno tornando tutti, anche i morti, e l’IDF è ancora in metà di Gaza. Non si tratta di voler mantenere un’occupazione o una forza di guarnigione, ma di assicurarsi che Hamas si disarmi, cosa che non era prevista nel piano Biden.”
Anche rispetto al piano Witkoff, ritenuto più vicino alle attuali posizioni israeliane, Segal osserva: “Si parlava di liberare metà degli ostaggi morti, poi due mesi di cessate il fuoco per trattare la fine della guerra, e infine un ulteriore ritiro dell’IDF da zone più ampie rispetto a oggi, con garanzia che la guerra non sarebbe ripresa. Ancora una volta, non c’era alcun collegamento tra la permanenza dell’IDF sul terreno e la promessa che Hamas si sarebbe disarmato, specialmente mentre alcuni ostaggi erano ancora detenuti. La forza di questa intesa sta proprio in questo punto.”
Chi verrà liberato: una lista che fa discutere
Accanto al quadro strategico, Segal richiama l’attenzione anche su un punto altamente controverso dal punto di vista morale e simbolico: l’identità dei prigionieri palestinesi che verranno liberati: “Tra coloro che saranno rilasciati nell’ambito di questo accordo: partecipanti al linciaggio di Ramallah, gli assassini della famiglia Tzur di Beit El, gli stupratori e assassini di una soldatessa e di un giovane, i pianificatori dell’attentato suicida a Tzrifin e molti altri.”
La questione della responsabilità
Segal affronta infine la questione della responsabilità politica per ciò che è avvenuto prima e dopo il 7 ottobre: “Così come era ridicolo, il 7 ottobre e nei giorni successivi, sentire da parte dei sostenitori di Netanyahu che i colpevoli erano il Capo di Stato Maggiore, il capo dello Shin Bet, il Procuratore Generale e il Consigliere Legale militare, escludendo Netanyahu da ogni responsabilità, è ridicolo oggi sentir dire: ‘Grazie a Trump, grazie a Nitzan Alon, grazie al premier del Qatar. Netanyahu e Ron Dermer non c’entrano nulla’. Netanyahu ha avuto un ruolo enorme nel fallimento del 7 ottobre. E ha un ruolo altrettanto grande, insieme a Dermer, in questo accordo.”
In chiusura, Segal invita a liberarsi dalla polarizzazione e a osservare i fatti: “Una volta, quando c’era solo un canale TV e la gente non sopportava i commentatori, si diceva: ‘Guardiamo la partita senza telecronaca’. “Io dico: guardiamo le mosse di Trump e Netanyahu senza telecronaca. Perché ci sono tante chiacchiere e calunnie. Ma nella pratica, non c’è mai stato un presidente e un primo ministro che abbiano agito così. E i risultati si vedono: dall’Iran, alle Alture del Golan, all’ambasciata…fino a Gaza.”