di Giordana Sara Pieri
Grazie al mio lavoro ho la possibilità di viaggiare tantissimo, e ogni volta che visito una città nuova rimango incantata. Per questo affermo sempre che il viaggio è una delle mie più grandi passioni. Amo ricercare la storia delle città, immergermi nei luoghi, conoscerli e studiarli. Amo poter osservare borghi in stile barocco, fontane neoclassiche, musei contemporanei, parchi cittadini.
E poi c’è la natura: capita che trascorra intere giornate in mezzo al verde per lavoro; shooting fotografici immersi nei boschi, vette o coste e quando ho il tempo libero mi concedo il lusso di camminare in montagna, raggiungere una nuova vetta, sedermi davanti a un fiume o nuotare all’alba nel mare. È in questi momenti che mi rendo conto di quanto sia grandioso il mondo in cui viviamo e quanta meraviglia abbiamo a disposizione per esplorare e conoscere. E poi ci sono gli incontri. Persone che appaiono sul mio cammino e che, in modi misteriosi, lasciano messaggi o segni. A volte sono passaggi fugaci, ma intensi, che determinano scelte o confermano direzioni. Ci sono stati anche animali che mi hanno protetta, onde che mi hanno guidata. E, insieme a tutto questo, c’è la solitudine: preziosa, a volte dura, ma necessaria per crescere, anche interiormente.
Ma durante questi viaggi, tra le tante meraviglie, ultimamente mi accompagna sempre una domanda. Una domanda che torna, puntuale, ogni volta che osservo il paesaggio urbano e umano che mi circonda: perché la disuguaglianza religiosa, storica, politica e culturale è così evidente, eppure così normalizzata? Le persone se ne rendono conto oppure non stanno usando la loro facoltà di scelta?
In ogni città in cui sono stata, in ogni borgo, villaggio o paese, addirittura in ogni vetta raggiunta in cima a una montagna, ogni sentiero percorso, ho sempre trovato almeno una croce, una chiesa o una statua della Madonna. Monumenti, simboli e segni cristiani ovunque. E intorno a me, tanti turisti che fotografano e che si incantano di fronte a cotanta bellezza, che nessuno ha mai osato danneggiare o imbrattare. È pura storia. Eppure ci siamo abituati a incantarci sempre della stessa, la medesima, uguale per tutti da anni e anni. Con questo non voglio certo dire che tutti i cristiani siano stati colonizzatori o oppressori. Ma i luoghi parlano. Le strade, le piazze, i monumenti raccontano una storia evidente: una narrazione dominante, radicata, che ha lasciato poco spazio ad altre presenze.
Dall’altra parte, oltre alle tonnellate di chiese, Madonne e crocifissi, ci sono altre religioni visibili. Mi ha sempre colpito, ad esempio, la quantità di moschee ancora attive, il modo in cui i musulmani possono vivere liberamente la loro spiritualità, pregare, incontrarsi nei luoghi di culto, anche oggi, senza paura. Che meraviglia! penso tra me e me mentre cammino ed esploro. E l’Asia? Un’intera parte di mondo a disposizione di buddhisti e induisti, con una miriade di templi meravigliosi e luoghi di culto. Pagode dorate, statue imponenti del Buddha, monasteri immersi nella natura, fiumi sacri e rituali millenari ancora vivi. E poi il confucianesimo, il taoismo, lo shintoismo, le religioni animiste, i giainisti, i sikh… una pluralità spirituale che convive da secoli, in cui la fede è parte integrante del paesaggio, della vita quotidiana, della cultura. Che fortuna! Penso tra me e me continuando a viaggiare…
Finché, un giorno, durante un’altro shooting fotografico, mi sono sentita male. E nel mezzo di quel malessere fisico-emotivo, ho sentito l’urgenza di scrivere. Per scelta personale non pubblico nulla sui social media riguardo il conflitto israelopalestinese, ma quel bisogno di scrivere era più forte di qualsiasi altra cosa. Volevo confidarmi con qualcuno, ma non potevo. Volevo avere un confronto costruttivo. E la domanda che mi è esplosa dentro era semplice quanto dolorosa: E gli ebrei? Perché viaggiando non vediamo sinagoghe attive, riconoscibili, accessibili come gli altri luoghi di culto? Perché gli ebrei non possono essere visibili, riconoscibili per strada, liberi di indossare la kippà o un Maghen David al collo, come segno d’identità e appartenenza? So che in molte città ci sono ebrei, ma spesso non possono essere riconoscibili. Non possono vivere pienamente la loro identità senza temere reazioni, giudizi o aggressioni. Poi sono stata negli Stati Uniti per la prima volta e lì ho visto la differenza. Ero sbalordita. Ho visto ragazzi, famiglie, comunità intere vivere normalmente la propria ebraicità. Studiare, mangiare kosher, andare in sinagoga, divertirsi, senza doversi nascondere. Essere ebrei senza doverlo spiegare, senza doverlo giustificare, senza doverlo nascondere perchè è meglio così. Sentirsi normali per ciò che si è. È questa la vera libertà. Ed è triste che tanti ebrei oggi si allontanino dalle proprie radici. O peggio, arrivino a criticare il proprio stesso popolo, solo per difendersi dall’esterno.
La pressione esterna è così alta che tanti ebrei scelgono di evitare il problema usandolo come giustificazione: “Sì, sono ebreo, ma….” E lo sappiamo bene che nelle discriminazioni razziali non esistono né “ma” e né “però”. E se la pressione esterna è forte, anche quella interna non è da meno. Ci giudichiamo tra di noi. Per l’origine, per il rito, per quanto una sinagoga è “più o meno religiosa”. Come se vivere più o meno ebraicamente o seguire la morale ebraica fosse diventato un problema.
Credo che ci serva una pausa. Un momento per riflettere su chi siamo e chi vogliamo essere. Oppure ci serve partire. Viaggiare. Guardare il mondo e capire, finalmente, che la torta è grande, non è fatta solo della nostra piccola fetta. Perché gli ebrei sono stati ovunque. E poi, ovunque, sono stati sgomberati. La storia continua a ripetersi. Nel 2025, ancora oggi siamo sempre percepiti come “scomodi”. Perché ci ricostruiamo in fretta, perché siamo autonomi, spirituali, intelligenti e capaci di reinventarci in qualsiasi momento e situazione. Non abbiamo bisogno di governi, né di approvazione. Solo di D-o. E in ogni città c’è un pezzo di storia ebraica. Ma va cercata. Spesso è bruciata, cancellata, dimenticata. A volte è solo una porta con un Maghen David scolorito, nascosta tra le mille chiese affollate. A Malta, ad esempio, ho chiesto se ci fosse una sinagoga o un quartiere ebraico. La risposta è stata: “Gli ebrei? Ora, qui?” E poi quel silenzio. Molti nemmeno sanno distinguere tra “ebreo” e “ebraico”. E questo racconta tutto. Tornata in camera, la mia testa non faceva altro che ripetersi un solo nome: Israele, Israele, Israele… Un paese in cui, nonostante tutto, possiamo esistere come siamo. L’unico paese al mondo in cui possiamo veramente essere ebrei.
Personalmente non ho nessun legame familiare con la terra di Israele, almeno che io sappia, ma nonostante ciò ho pensato: è veramente l’unico paese al mondo dove possiamo essere ebrei, ovvero esattamente al contrario del resto del mondo. Perché solo lì dovremmo sentirci liberi? In questi giorni, mesi e ormai anni di alta tensione il mio pensiero va sempre alle famiglie, il luogo più caldo e sicuro che abbiamo. E lì mi interrogo su come tratterei mia figlia. E vorrei chiederlo a tutti, soprattutto a coloro che non ci accettano. «Tu, come tratteresti tua figlia? La tua unica e sola figlia, se fosse malata e rischiasse di morire ogni giorno? Se anche per una banale influenza, che per gli altri non fa nulla, il giorno dopo lei rischierebbe di non esserci più. Tu, come la tratteresti, se ogni volta che la porti in giro la insultassero, le tirassero sassi, le dicessero che non ha diritto di parlare, né di esistere? Se ogni volta che prova a difendersi, viene accusata di essere lei il problema? Se ogni gesto di vita che compie viene interpretato come una minaccia?» «Tu, genitore, cosa faresti? Lascia stare la guerra, prendi il tuo cuore in mano e rispondimi, sinceramente.» Io a mia figlia direi di non abbassare mai la guardia, le direi che può e deve vivere, che ha il diritto di fare tutto ciò che fanno anche gli altri ragazzi, anzi, di più. Le direi che ha il diritto di essere ciò che è. Le direi che non sarà l’odio degli altri a definire il suo valore. Le direi che dovrà essere più forte di tutti gli altri, più preparata, perché sì, è diversa. Ma che questa diversità è anche la sua luce. E che dovrà resistere. Sempre.