di Esterina Dana
Sono passati alcuni mesi dalla pubblicazione del tuo libro La cultura dell’odio. Come è stato accolto nelle città in cui l’hai presentato? E oggi come procede la sua diffusione?
Al Salone del Libro di Torino hanno cercato di impedirne la presentazione, ma non ci sono riusciti. Grazie all’eco mediatica che ne è derivata, per pochi giorni è risultato il libro più venduto su Amazon Italia nella sezione Ebraismo e il secondo nella sezione Religione. In seguito, sono riuscito a presentarlo anche a Vercelli, Finale Ligure e Roma, presso la sede del Senato.
Nel frattempo, lo scenario internazionale è cambiato.
Sì, ma più nei dettagli. Quando ho finito di scrivere il libro, Trump non aveva ancora preso misure forti contro le università americane ostili agli studenti ebrei, e il tema della fame a Gaza era meno dibattuto rispetto ad oggi. Restano attuali gli atteggiamenti e i pregiudizi. Intanto, i tentativi di boicottaggio sono aumentati.
La cultura dell’odio è un punto di riferimento per chi cerca la verità storica, sempre più distorta dalla propaganda. È possibile contrastarla?
Non nel breve termine. I media hanno alimentato la demonizzazione di Israele, inquinando il linguaggio e il pensiero; l’ebreo è buono finché vittima, quando smette di esserlo diventa il cattivo. Conclusa la guerra, i suoi effetti dureranno negli anni.
Come leggi le sempre più diffuse manifestazioni filopalestinesi, non ultima quella della Global Sumud Flottilla, che ha coinvolto anche quattro parlamentari italiani?
Sono il frutto di una certa deriva delle sinistre, che vedono nell’Occidente la causa di tutti i mali. Dopo la Guerra dei Sei giorni, ma in parte già dagli anni ‘50, la propaganda sovietica aveva costruito l’immagine di un Israele colonialista e razzista. I semi dell’odio sono sopravvissuti al crollo dell’URSS e hanno continuato a germogliare. Oggi se ne colgono i frutti avvelenati non solo a sinistra; succede ad esempio in Irlanda, il cui governo di centrodestra ha riconosciuto la Palestina e sostenuto la causa contro Israele intentata dal Sudafrica alla Corte dell’Aja. L’Occidente, in crisi di identità, ha avuto bisogno di un nemico e l’ha trovato in Israele, stigmatizzato come il “bianco europeo colonizzatore”.
I media amplificano l’intensità dell’odio, sollecitando uno spirito di emulazione. Ma la propaganda passa anche attraverso la cultura nelle università.
Sì. Il Qatar, che non ha armi ma possiede molto denaro, investe ingenti risorse, finanziando le università americane e introducendo nei curricula accademici tematiche manipolatorie che producono un’egemonia culturale.
L’ossessione delirante per Israele e l’odio pervasivo per gli ebrei sono difficili da comprendere.
A differenza di altri gruppi discriminati, per i quali è più facile fare distinzione tra vittime e aggressori, gli ebrei sono sempre stati un paradosso: perseguitati perché ricchi e perché rivoluzionari, perché capitalisti e perché comunisti. E se il conflitto israelo-palestinese attira tanta attenzione, è perché agli occhi dell’Occidente rappresenta anche uno scontro tra due sensi di colpa: quello per la Shoah, che porta a simpatizzare per gli ebrei, e quello per il colonialismo, che porta a simpatizzare per gli arabi. Dopo il 7 ottobre, questo paradosso è svanito: gli ebrei sono stati definitivamente collocati tra i “cattivi”.
Come mai non ci siamo accorti di questa deriva?
In Israele si è abbassata la guardia per un’illusione di stabilità. Ma già prima del 7 ottobre il Paese era scosso da proteste interne, normali in una democrazia giovane e dinamica, ma ciò ha indebolito il Paese e lo ha reso vulnerabile.
Nel tuo libro non ti sei occupato della scuola. Che cosa si può fare per proteggere le menti di giovani adolescenti influenzabili dai “cattivi maestri”?
Nella mia ricerca ho escluso il tema della scuola per l’impossibilità di lavorare con rigore su un argomento tanto vasto. Penso che il ruolo della scuola dovrebbe essere soprattutto quello di insegnare a decodificare le parole malate e coltivare lo spirito critico.