di Michele Di Benedetti
Analisi di un’intervista choc dell’ex agente del servizio Action della DGSE
QUI l’intervista integrale su Tribune Juive
L’intervista esclusiva concessa da Pierre Martinet a Tribune Juive rappresenta un documento di rara durezza e franchezza. L’ex membro del servizio Action della DGSE, già operativo in scenari sensibili come il Libano degli anni ’80 e coinvolto in missioni di addestramento di forze straniere, offre un’analisi impietosa del 7 ottobre 2023 e delle sue conseguenze geopolitiche.
Il filo rosso che attraversa tutto il colloquio è la convinzione che la guerra contro Hamas e i suoi alleati non sia una questione regionale, ma un nodo cruciale di una più ampia “guerra di civiltà” tra l’islam radicale e l’Occidente.
7 ottobre: un “marcatore” che segnerà la storia
Martinet esordisce ribadendo un concetto che aveva già espresso mesi prima dello stesso premier israeliano Netanyahu: se Israele non porterà fino in fondo la distruzione delle organizzazioni islamiste, “un altro 7 ottobre si ripeterà”. L’attacco – che egli definisce un “pogrom” – non deve essere letto come un episodio isolato, ma come un segnale storico.
“Se domani Israele smettesse tutto, liberasse dei terroristi e attendesse soltanto la liberazione degli ostaggi, il 7 ottobre non sarebbe servito a nulla”, afferma. L’unica alternativa, a suo giudizio, è un’azione radicale e definitiva, senza compromessi. Gaza, aggiunge, è per definizione “antinomica”: non può esistere come enclave ostile incuneata nel cuore del territorio israeliano. Per Martinet, una vera soluzione passerebbe da una ridefinizione territoriale, con la Giordania come futura Palestina, poiché “Gaza è solo un campo retranché per commettere attentati contro Israele”.
Un fallimento dei servizi segreti
L’ex agente parla senza mezzi termini di “fallimento clamoroso” dei servizi israeliani e occidentali. Paragona il 7 ottobre ad altri momenti di cecità intelligence come l’11 settembre negli Stati Uniti o il 13 novembre a Parigi. Ma la differenza, avverte, è che “per Israele i nemici non sono lontani: sono già dentro e attorno ai suoi confini”.
Da qui l’accusa: non si è trattato di un’improvvisa sorpresa, ma di un buco che appare incomprensibile alla luce dei segnali disponibili. Citando fonti aperte, Martinet ricorda che poche ore prima dell’attacco centinaia di carte SIM erano state attivate simultaneamente per telefonare in Israele, e che durante l’operazione i terroristi disponevano persino di strumenti di brouillage (disturbo elettronico delle comunicazioni), tecnologia che solo Stati sovrani possono fornire.
La sua conclusione è netta: “Per me c’erano due Paesi che sapevano: il Qatar e l’Iran”. E, aggiunge, è difficile pensare che i servizi americani, con la loro più grande base mediorientale proprio in Qatar, potessero ignorare segnali di questa portata. “La CIA è un mastodonte che si fa manipolare di continuo”, commenta, lasciando intendere che vi siano state quantomeno sottovalutazioni o depistaggi.
Qatar, Iran e l’ambiguità occidentale
Martinet accusa frontalmente Doha di essere “il fer de lance dell’islamismo, del frérisme, della conquista”. Per lui, l’idea che il Qatar sia solo un mediatore è una menzogna utile: “In un Paese dove tutti sono cugini, non esistono ricchi mecenati separati dal potere. Sono la stessa cosa”.
Sullo sfondo, l’ex 007 denuncia l’atteggiamento ambiguo delle cancellerie europee e anche francesi, incapaci di affrontare il doppio gioco di certi Stati: da un lato alleati economici e militari, dall’altro sponsor delle organizzazioni terroristiche.
Ombre sulla Francia: formazione, aiuti e compromessi
Uno dei passaggi più sorprendenti dell’intervista riguarda il coinvolgimento diretto della Francia in operazioni di addestramento e supporto. Martinet ammette che negli anni ’90 la DGSE abbia addestrato i servizi palestinesi e persino fornito materiale esplosivo all’Autorità di Arafat, trasportato con valigie diplomatiche. “Era l’Autorità palestinese dell’epoca, quindi Arafat. E quello era materiale che… esplode”, afferma senza giri di parole.
Allo stesso modo, rivela il sostegno fornito all’UCK in Kosovo, con esfiltrazioni organizzate dalla Francia e formazione diretta. “L’UCK è un gruppo terrorista, e noi li abbiamo formati”, racconta. Per lui, queste operazioni rientravano in una logica di scambio: “Dopo gli attentati in Francia del 1995, improvvisamente tutto si calmò. Non solo perché i nostri servizi erano bravi, ma anche perché avevamo aiutato la Palestina. E, guarda caso, non ci furono più attentati”.
La Francia sotto minaccia: il rischio di un “mini-7 ottobre”
Il discorso di Martinet si sposta quindi sulla situazione interna francese. Alla domanda se un “7 ottobre francese” sia possibile, risponde senza esitazione: “Evidentemente sì”. Secondo lui, basterebbero cinquanta o cento uomini ben armati per seminare stragi simili a quelle viste a Bataclan e Stade de France, moltiplicate per dieci.
La Francia, spiega, accoglie circa mezzo milione di immigrati l’anno, “in maggioranza musulmani”, e ciò crea le condizioni per un potenziale conflitto intercomunitario. Non immediato, precisa, ma inevitabile nel medio periodo. “Ci avviamo verso una situazione simile a quella del Libano, con due comunità faccia a faccia. Tra venti o trent’anni potremmo raggiungere un punto di rottura”.
L’ex agente cita il narcotraffico come ulteriore fattore destabilizzante, parlando di “narco-jihad”: un intreccio tra reti criminali e jihadismo che fornisce fondi, armi e logistica.
Una guerra di civiltà
Il passaggio più radicale dell’intervista è la sua diagnosi generale: siamo di fronte a una guerra di civiltà, lo scontro evocato da Fukuyama. Martinet rievoca un episodio personale: da giovane paracadutista a Beirut, nel 1983, un anziano libanese gli disse che la Terza guerra mondiale sarebbe stata “tra islam e Occidente”. Per lui, quella profezia si sta realizzando.
Israele, in questo schema, è la “diga della democrazia, dell’Occidente, in mezzo a tutti questi selvaggi”, espressione volutamente provocatoria che Martinet invita a riportare testualmente. E avverte: se Israele dovesse cadere, l’Occidente sarebbe perduto.
L’intervista di Martinet a Tribune Juive non è solo una testimonianza: è un atto politico, una presa di posizione netta e radicale. Il suo linguaggio diretto, a tratti brutale, riflette l’esperienza di chi ha vissuto la guerra e i servizi segreti dall’interno.
Si può contestare la sua visione binaria, il suo tono incendiario o la mancanza di prove su alcune accuse. Ma non si può ignorare la forza delle sue parole: il 7 ottobre non è un incidente, bensì un avvertimento. E per Martinet, o si agisce in modo radicale, o l’Occidente si avvia verso un declino irreversibile.
Foto in alto: Pierre Martinet (Photo Elina Ana)