di Davide Cucciati
Nelle ultime settimane diverse voci filoisraeliane hanno denunciato limitazioni dell’attività sui propri profili social. Il quadro che emerge dalle testimonianze raccolte da Mosaico è quello di segnalazioni in massa e provvedimenti automatici o semiautomatici che, talvolta, colpiscono anche contenuti informativi o satirici. La redazione ha parlato con la professoressa Elena Lea Bartolini, con il Comitato Setteottobre guidato da Stefano Parisi, con il giornalista e scrittore Michael Sfaradi e con il comico e creator Ciro Principe. Mosaico ha inoltre potuto visionare le comunicazioni ufficiali di YouTube relative al canale Setteottobre.
Bartolini riferisce un’alternanza di blocchi e riattivazioni: “L’8 giugno mi hanno bloccato l’account. Un messaggio di Meta parlava di ‘hackeraggio’ del profilo”. Dopo due o tre giorni l’accesso è stato ripristinato. “Il 18 agosto potevo vedere i contenuti ma non interagire: ‘operatività limitata’ per presunta non conformità alle regole di Facebook. Dopo circa 24 ore si è sbloccato. Il 19 agosto nuovo avviso: un post sulla ragazza di Gaza malata di leucemia e morta in Italia sarebbe stato ‘non abbastanza circostanziato’. La stessa cosa è capitata ad almeno dieci persone che conosco”. Per Bartolini non è un caso: “Ci sono gruppi antisionisti o simili che si organizzano per segnalare. Ho chiesto la riesamina a Facebook. A Gerusalemme nessuno censura; qui in Europa, di fatto, sì”.
Michael Sfaradi racconta che pochi giorni fa gli sono stati bloccati gli account Instagram e Facebook con la motivazione formale dell’“uso dell’account per commercio” e una sola possibilità di ricorso. “È un’operazione di cecchinaggio. Su Instagram restano intere pagine che promuovono escort. Io promuovo i miei libri. Inoltre, le nostre segnalazioni non vengono prese in considerazione. A mio avviso dentro Meta c’è una linea che vuole zittire le voci scomode: stanno diventando la fanfara della propaganda più becera, anche quando ammicca al terrorismo”, afferma Sfaradi, parlando di utenti “organizzati, talvolta pagati” e di un algoritmo che “valorizza ciò per cui è programmato”.
Ciro Principe riferisce la sospensione di Facebook, la perdita dell’account TikTok e il mantenimento di Instagram. “TikTok è severissimo sulle parole: un creator ha testato che l’espressione ‘Ebrei di merda’ resta, mentre ‘Musulmani di merda’ viene cancellata. Anche quando contestualizzi certi termini, ti colpiscono lo stesso”. Secondo Ciro, parte delle segnalazioni “viaggia in modo coordinato su Telegram”, che rimane, nel bene e nel male, una piattaforma “senza filtri”. Ammette che alcuni suoi post hanno contribuito ai provvedimenti: “A Di Battista ho scritto le condoglianze per la morte di Sinwar; al professor Orsini ho scritto che Israele deve armarsi contro gli ‘animali nazisti’; ho provocato il Nuovo Partito Comunista Italiano chiedendo il mio inserimento nella lista degli ‘attivisti sionisti’; ho dato del ‘nazista’ alla titolare della Taverna di Santa Chiara”. A suo dire, oggi sui social è divenuto impossibile definire Hamas come “animali” o “nazisti”.
Dal lato civico, il Comitato Setteottobre segnala di avere superato 2.200 firme nella petizione per chiedere la riattivazione del proprio account YouTube: “Non ha avuto effetti, se non quello di far emergere molti altri casi di ‘censura’. Il ricorso lo avevamo presentato prima dell’appello, ma YouTube ha confermato il blocco del canale”, sintetizza il presidente Stefano Parisi. Le comunicazioni intercorse tra YouTube e il Comitato Setteottobre, visionate da Mosaico, mostrano tre passaggi: anzitutto l’avviso di messa “in privato” di un video di cronaca intitolato “L’ostaggio israeliano Rom Braslavski nel terribile video di propaganda della Jihad Islamica”, per possibili violazioni delle “norme sulle organizzazioni criminali violente”; poi la rimozione del canale per “violazioni gravi o ripetute” della medesima policy; infine il rigetto del ricorso con la conferma che il canale non sarà ripristinato. In altri termini, contenuti che denunciano la propaganda di gruppi terroristici possono essere intercettati dai filtri se includono immagini o titoli sensibili; YouTube ricorda che esistono “rare eccezioni” per contesti formativi, documentaristici o informativi, ma privilegia comunque la sicurezza degli utenti.
Nel complesso emerge un metodo ricorrente: segnalazioni mirate, interventi automatizzati o semiautomatizzati, margini di difesa ridotti e tempi di riesame non sempre chiari. Le opinioni degli intervistati divergono sulle cause, dall’“algoritmo cieco” alla “malafede”, ma convergono sugli effetti: la crescente difficoltà di fare informazione sul conflitto in Medio Oriente.
Come ha osservato il giornalista israeliano Amit Segal, il tema non riguarda solo le regole interne delle piattaforme: per questioni meramente numeriche, “Anche se ogni ebreo twittasse due volte al giorno, non cambierebbe molto. Ma se Israele vincerà davvero, allora cambierà anche la narrazione. Ci sarà pace con Arabia Saudita, Siria, forse anche Libano, e Israele smetterà di essere percepito come un Paese in guerra e di caos, per essere visto, invece, come una superpotenza”. In attesa di mutamenti sul terreno e sul campo di battaglia, resta la domanda per piattaforme e utenti: come conciliare sicurezza, pluralismo e qualità dell’informazione?