Un agricoltore contento

Giovani

di Giacomo Sonnewald

Schermata 2015-10-01 alle 13.46.36Viaggio in Israele con l’Hashomer Hatzair

Un agricoltore contento; ecco come si firmò Nathan Ikar (Nathan il contadino) ovvero Ernst Pollak, a poche settimane dalla sua morte, ricoverato a Safed per malaria, scrivendo la sua penultima lettera ai genitori. Ernst, dopo essere stato un “uccello errante” (Wanderyogel), membro cioè del movimento giovanile austriaco, ricercò un ritorno alla vita semplice dell’età preindustriale. Appassionato di scoutismo e ebraismo, un giorno decise di lasciare i Wanderyogel per andare all’Hashomer Hatzair, che aderiva al Marxismo e all’obiettivo di ristabilirsi in Palestina come madrepatria del popolo ebraico. Ernst decise che l’Austria non era il suo Paese e nel gennaio 1920 salpò da Venezia diretto a Jaffa. Lì prese parte ad una comune radicale sionista-socialista, Bittania, nella Valle del Giordano, con altri giovani venuti dall’Europa, permeata da una forte ideologia che noi a mala pena capiamo. Erano venuti per “costruire la terra ed essere ricostruiti da essa”. Tuttavia, deluso dall’esperimento sionista di Bittania, depresso e malato di malaria, a diciannove anni Ernst si sparò, nel novembre del 1920; eppure, poco prima di morire, si definiva “un agricoltore contento”. Questa storia l’ho imparata l’ultimo giorno del seminario in Israele con l’Hashomer Hatzair, il movimento che frequento. Quel giorno eravamo stanchi, avevamo appena fatto una gita di quattro ore sotto il sole di Israele ad agosto, ma quando la nostra guida ha iniziato a parlarci di Nathan Ikar, piccolo ebreo scoutista, in cerca del primo sionismo, la mia mente si attivò subito. Eravamo al cimitero del Kinneret, dove sono sepolti i primi fondatori del sionismo laburista e i primi membri del kibbutz del Kinneret (kvuzat Kinneret) come la poetessa Rahel, o la cantante Naomi Schemer, nata lì. Il seminario Tzofì, nel nord di Israele, vicino al kibbutz Amir, ha visto tutti i Kenim di Europa riuniti insieme per imparare la tzofiut e saperla applicare. Lì ho coltivato il primo dei miei semi che ho piantato in Israele.
Il secondo seme l’ho fatto crescere nel nucleo dell’Hashomer Hatzair. A Givat Haviva c’è il museo dell’Hashomer e l’archivio nel quale abbiamo letto le lettere dei nostri madrichim, fratelli e amici che gli anni passati avevano fatto come noi seminari in Israele. Haviva era una shomeret di Vilnius e fu una delle prime fondatrici dei kibbutzim dell’Hashomer Hatzair, quando fece l’Alya. Givat in ebraico significa collina e questa è dedicata a una persona che ha contribuito al sionismo shomristico: il mio seme sta crescendo e crescerà ancora lì perché stanno cercando di far diventare una parte di Givat Haviva un centro di coesistenza per la pace.
Il terzo seme è cresciuto durante la Veidà europea, occasione in cui si riuniscono gli shomrim per prendere decisioni di tipo ideologico. Il tema è stato “l’ebraismo umanista”. Il mio seme ha attecchito durante una peulà nella quale parlavamo di “Kehilla: comunità”. Sono nato, vivo e voglio che i miei figli vivano in una comunità. Il mio seme è cresciuto grazie ad Abba Kovner (partigiano ucraino divenuto famoso come poeta israeliano), grazie alla lettura di questa frase: “Forse è la lezione principale del Giudaismo, che le mie preghiere debbano mescolarsi con quelle degli altri per essere efficaci, che le mie parole debbano unirsi con il borbottio degli altri ebrei”.
Il mio quarto seme è germogliato a Gerusalemme; ma perché proprio ora? Essendoci stato due volte, avrebbe dovuto essere già una piccola piantina e invece è successo ora perché questa volta ho vissuto Gerusalemme veramente. Come poteva crescere il mio seme senza una peulà con la mia kvutzà sulle “givot” (colline) di Gerusalemme? Come poteva crescere quando non avevo ancora superato tante mie paure? A Gerusalemme ho affrontato una grande sfida personale: la camminata di 40 minuti nel tunnel sotterraneo, con l’acqua sopra le caviglie, al buio. Davanti e dietro di me però c’era un cappellino uguale al mio, e se avevo paura qualcuno mi stringeva la mano; solo allora poteva nascere il mio seme, attecchito poi al muro del pianto. Del pianto? In realtà si chiama Kotel Amaravi (muro occidentale), ma forse ho capito il motivo del “pianto”. Quando inserivo il mio bigliettino dentro le grosse mura avevo la kippà in testa, un mio haver belga da un lato e un ragazzo con le peiot dall’altro; però eravamo tutti e tre ragazzi, eravamo tutti e tre sognatori e tutti e tre per ragioni diverse pregavamo.
I miei ultimi due semi sono come dei figli per me, sono i ricordi più importanti di questo viaggio. Il mio quinto figlio è stato duro seminarlo, non perché la terra fosse arida; era molto triste, non c’era quella terra, cosicché questo seme l’ho coltivato nel mio cuore perché ad Auschwitz non c’è posto per il mio seme. Yad Vashem: un monumento e un nome. Quanti nomi ho letto quel giorno, troppi che ancora la mia mente non comprende come siano potuti finire gassati. Il mio seme cresce questa vo lta con un rabbino: Rav Kalonymus Kalman Shapira. Rabbino polacco segregato nel ghetto di Varsavia ha continuato negli anni della guerra a insegnare Ebraismo, ha formato una sinagoga segreta, ha creato addirittura un Mikve e ha continuato a scrivere testi ebraici. Il mio seme cresce con un’idea: niente ci può togliere l’educazione; soprattutto noi dei movimenti giovanili dobbiamo preservarla e continuare a educare i nostri bambini con sempre più entusiasmo e passione.
Nessun ricordo è più importante di un altro, però ce n’è uno cui sono più legato: il deserto. Riflette un po’ la parte spirituale di me stesso, cui tengo molto, che probabilmente ancora non conosco, ma che sta crescendo grazie alla mia famiglia, all’Hashomer e ai miei amici. Anche in questo caso ho fatto fatica a piantare il mio seme. Un seme nel deserto? Eppure Israele ci ha insegnato che anche dal deserto può nascere una foresta, così anche il mio seme sta crescendo rigoglioso. Dopo una stupenda accoglienza da parte dei beduini, la sera le nostre guide ci hanno portato un po’ fuori dall’accampamento per guardare le stelle. Tra il dolce suono del flauto e noi che cantavamo una canzone, abbiamo visto le stelle cadenti: che il sogno si avverasse o meno, l’importante era sognare sdraiato insieme ai miei chaverim nella culla del deserto. Non è lì però che ho piantato il mio ultimo seme, ma a Masada, dove abbiamo fatto una bellissima peulà sulla resistenza di Masada a confronto con quella del ghetto di Varsavia. Perché il mio ultimo seme è stato piantato lì? Perché Masada mi ha fatto riflettere su come tutti noi siamo schiavi oggi, ma dobbiamo resistere e sopratutto non essere indifferenti; cercare di attivarci per quello che succede nel mondo. Spesso la mia pigrizia me lo impedisce ed è per questo che ho deciso di seminare anche qualcosa nella mia testa, oltre che nella bellissima spianata di Masada. Ora sono anch’io un agricoltore contento, perché quando tornerò in Israele potrò raccogliere i sei frutti che ho seminato. E anche perché ho capito che posso raccogliere tanti frutti che l’Hashomer ha seminato per me nel passato.