josef mengele,

La vicenda dei medici nazisti e dei loro esperimenti nei lager. Quando l’ideologia uccide il senso dell’umano

Libri

di Ugo Volli

[Scintille. Letture e riletture] Nei campi di concentramento ma anche altrove (negli ospedali, soprattutto) i nazisti usavano i deportati come cavie per compiere orribili esperimenti “medici” sui loro corpi. Questo è un aspetto della Shoah parzialmente noto anche al grande pubblico, che si riassume di solito col nome di Joseph Mengele, il capitano delle SS che guidava la “sperimentazione medica” ad Auschwitz.

Ma se ne parla poco e si tende a pensare che si sia trattato soprattutto di iniziative sadiche di singoli individui, di ciarlatani e torturatori che agivano per folle ferocia. Le cose purtroppo non andarono così. In questi crimini ci fu un coinvolgimento generale dell’Università e dell’industria medica tedesca, che sostenne convinta l’eliminazione dei “cancri umani” e dei “fardelli” che “affliggevano la nazione tedesca” e usò largamente la disponibilità di esseri umani imprigionati, ebrei, bambini malati, da usare come cavie. Lo racconta l’ultimo sconvolgente libro di Giulio Meotti, Ippocrate è morto ad Auschwitz (Lindau editore) mostrando con centinaia di nomi e di storie l’attività criminale di grandi medici e scienziati, Premi Nobel per la Medicina, e la complicità delle più famose istituzioni accademiche e delle grandi industrie farmaceutiche.
Lo stesso Mengele non era per nulla un torturatore isolato, aveva un brillante curriculum accademico ed era stimato nelle più importanti università.

Dopo la guerra, molti fra gli aguzzini furono promossi, premiati, fecero splendide carriere nelle università tedesche del dopoguerra, a Est e a Ovest. Nessuno osava rimproverare loro le pubblicazioni ricavate dalla tortura e dalle esecuzioni dei deportati.
Come scrive Meotti, “questi medici e scienziati non erano né ‘il male assoluto’, né ‘la banalità del male’ , erano il meglio della medicina e della scienza tedesca del tempo, che si prestarono a braccia aperte a un’opera di distruzione che il genere umano non aveva mai conosciuto prima”. Perché lo fecero? Perché pensavano di “fare il bene”, di “perseguire la loro missione”. Erano permeati di un’ideologia che distingueva fra “la vita degna di essere vissuta” e quella che non lo era; fra chi era utile e funzionale al “corpo colletti- vo” della società e chi lo danneggiava e per questo andava eliminato. Credevano, “per il bene di tutti”, di poter fare qualunque cosa agli individui, in parti- colare agli “inferiori”. Meotti sottolinea in particolare il rapporto intimo che ci fu fra gli “esperimenti” condotti sul corpo degli ebrei nei campi, “necessari per l’avanzamento della scienza” e la “Aktion T4”, iniziata nel 1939, che consisteva nell’uccisione dei disabili e in particolare dei bambini portatori di handicap o “incapaci di vivere”.

È importante capire che nessuno di questi scienziati (e dei loro pari in altri campi come Heidegger, Carl Schmitt, ecc.) fu “costretto” a compiere i suoi crimini; nessuno agì “banalmente” per obbedienza burocratica, nessuno era un indemoniato. Tutelavano la carriera, cercavano di acquisire meriti, importanza e pubblicazioni scientifiche, credevano di fare “il bene” (per la Germania, per la scienza, per la società, per il Partito).

Non bisogna banalizzare il male nazista, riducendolo a “obbedienza burocratica” alla “follia sanguinaria” di pochi capi. Le storie ricostruite da Meotti insegnano che l’orrore più estremo può derivare dalle “buone intenzioni” di “bravi medici”.