“Non negoziare”: la strada senza uscita di Abu Mazen

Israele

di Marco Paganoni

di Marco Paganoni

Bisogna dargliene atto, ai palestinesi: da quando hanno deciso di abbandonare il negoziato e perseguire il riconoscimento internazionale senza un accordo con Israele, si sono dedicati a questo obiettivo con costanza e caparbietà. Ed anche con qualche risultato, che tuttavia non va -né potrebbe andare-, nel senso della pace.

Che la scelta sia effettivamente quella di sottrarsi alla trattativa, e che le condizioni poste per sedere al tavolo del negoziato siano solo pretesti, apparve con tutta evidenza nel 2010 quando il governo Netanyahu accettò di decretare un moratoria delle attività edilizie ebraiche negli insediamenti di Cisgiordania, anche in quelli che tutti in Israele ritengono destinati a rimanere israeliani con qualunque futuro accordo. Ebbene, per dieci mesi la dirigenza palestinese non mosse un dito, salvo poi all’ultimo momento, nel settembre di quell’anno, gettare sul tavolo la richiesta di un prolungamento della moratoria come nuova condizione per negoziare.

L’exploit più evidente di questa scelta strategica palestinese è stato quello di farsi ammettere all’Unesco come Stato-membro senza essere uno Stato (in contrasto, peraltro, con lo statuto dell’agenzia stessa) e senza un accordo di pace negoziato con Israele. Cioè, come osserva Caroline Glick sul Jerusalem Post, come uno Stato che è de facto in stato di guerra con Israele: una mossa che meglio non potrebbe rappresentare il rifiuto di negoziare con Israele stesso. “Boicottando i negoziati e rivolgendosi invece direttamente alle Nazioni Unite -ha detto Benjamin Netanyahu-, i palestinesi hanno rinnegato il principio cardine su cui si regge il processo di Oslo”.

Tutto il processo di pace fra Israele e Olp/Autorità Palestinese si fonda infatti sull’impegno da parte palestinese di creare il loro Stato solo nel quadro di un trattato di pace concordato con Israele. Israele, spiega Netanyahu, ha pagato in termini territoriali e si è assunto pesanti rischi solo perché, in base agli accordi, i palestinesi si erano impegnati a risolvere ogni questione in sospeso attraverso negoziati diretti. E le questioni in sospeso non mancano, a cominciare dalla stessa definizione dei confini, tutt’altro che stabiliti: talché la stessa Autorità Palestinese fa riferimento, secondo i casi, alle linee armistiziali del ’49, alle linee teoriche indicate dall’Onu nel ’47, ma assai più spesso, in tutta la pubblicistica irredentista, ai confini dell’intero Mandato Britannico del ’22.

Avallando la violazione palestinese dell’impegno a trattare, l’Unesco non ha fatto che allontanare le chance di arrivare a un accordo di pace che sfoci in una concreta indipendenza palestinese. Noncuranti di tutto ciò, i palestinesi contano di ripetere la prodezza presso altre agenzie Onu e, se il Consiglio di Sicurezza si dimostrerà – come pare – tetragono ai loro tentativi, direttamente all’Assemblea Generale: pur di non trattare faccia a faccia con Gerusalemme. Un comportamento che non cessa di stupire.

il Perché del rifiuto

Nota Barry Rubin, direttore del Global Research in International Affairs Center di Herzliya: “Se i palestinesi sono tanto miseri e desiderano sbarazzarsi in fretta degli insediamenti, dovrebbe essere nel loro interesse fare un accordo decente il più presto possibile”. Al contrario, è almeno dal luglio 2000 che rifiutano le soluzioni di compromesso proposte da Ehud Barak, da Bill Clinton e da Ehud Olmert.

In un libro appena uscito in America (No Higher Honor: A Memoir of My Years in Washington), l’ex segretario di stato Condoleeza Rice racconta d’essere “trasecolata”, nel 2008, quando l’allora primo ministro israeliano Ehud Olmert le espose in sede riservata le linee della sua estrema proposta di pace: oltre alla restituzione del 100% dei territori (tra ritiri e scambi alla pari), Olmert offriva la cogestione di Gerusalemme come sede di due capitali, e addirittura una forma di amministrazione internazionale della parte vecchia coi luoghi santi. La Rice, quasi non credendo alle proprie orecchie, si affrettò a riferire la proposta al presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Il quale, come si sa, seraficamente la lasciò cadere senza nemmeno rispondere. Se invece i palestinesi avessero firmato, oggi avrebbero uno Stato indipendente su una superficie equivalente alla somma di Cisgiordania e striscia di Gaza, la loro capitale nei quartieri arabi di Gerusalemme est, ingenti aiuti internazionali per integrare i figli e nipoti dei profughi del ’48. “Certo – aggiunge Rubin – avrebbero dovuto accettare di porre fine al conflitto e a ogni ulteriore rivendicazione, il che sembrerebbe abbastanza logico. E di insediare i profughi nello Stato palestinese anziché dentro Israele, il che pure sembra piuttosto logico”. Verosimilmente avrebbero anche dovuto accettare dei limiti ai loro armamenti e alle loro alleanze militari, simili a quelli con cui altri Paesi del mondo hanno vissuto e prosperato per decenni senza patemi (si pensi al Giappone). In cambio -vale la pena ripetere-, avrebbero ottenuto l’agognata indipendenza, e senza più insediamenti fra i piedi. Se è vero, come viene detto e ridetto, che gli insediamenti sono il peggiore degli ostacoli e degli affronti ai palestinesi e alla pace, che senso ha bloccare il negoziato sulla questione del loro congelamento anziché affrettare un accordo che fisserebbe confini definitivi, sicuri e riconosciuti? A meno che non sia proprio questo, ciò che non si vuole. “L’ho già detto e voglio ripeterlo un’altra volta – ha dichiarato quasi infastidito Abu Mazen, intervistato il 23 ottobre scorso dalla televisione egiziana – Io non riconoscerò mai uno Stato ebraico né l’ebraicità dello Stato d’Israele”. Forse bisogna dargli ascolto.