Intervista/ Rav Giuseppe Laras

di Cristiano Bendin

Come prima cosa, visto che siamo nelle Marche, un suo ricordo personale legato a Macerata, dove ha studiato giurisprudenza, e ad Ancona, dove è stato e, dopo una lunga parentesi, è tornato ad essere il Rabbino Capo.

Quello con Ancona è stato un ritorno. Arrivai qui giovane, avevo 23 o 24 anni, e questa fu la mia prima comunità come rabbino. Studiavo legge a Torino e per non interrompere l’università decisi di proseguire nella vicina Macerata, dove allora insegnava Stefano Rodotà, giovanissimo e brillante professore, di cui serbo un ottimo ricordo. Ho ancora in mente il tragitto che facevo, passando per Osimo e Treia. Ad Ancona non avevo collaboratori ed inizialmente fui aiutato dal buono e anziano officiante della sinagoga, che disgraziatamente morì poco dopo il mio arrivo. Tutto ricadde così sulle mie spalle. Ricordo che fui intimorito dall’incarico, anche perchè la gente marchigiana all’inizio è un po’ chiusa: nel tempo, tuttavia, le cose sono andate bene e la comunità si è aperta. A trattenermi fu soprattutto il pensiero della grande fiducia che queste persone avevano riposto in me. Qui ho fatto esperienze importanti, mi sono impratichito, ho scoperto una città molto bella e ricca di storia.

Lei è un “figlio della shoah”:  non teme che il “Giorno della Memoria”, istituito dal parlamento italiano nel luglio del 2000, rischi oggi di sprofondare nella retorica o di servire a qualcuno per far acquisire una sorta di “presentabilità”, magari col rischio di ottenere risultati contrari a quelli per i quali fu pensato?

Il problema certamente esiste, il giorno della memoria sta purtroppo diventando una sorta di liturgia ripetitiva. Ma è bene evitare di farlo abolire come qualcuno ritiene. Bisogna cercare invece di dargli sempre di più un contenuto attraverso testimonianze e riflessioni, con finalità educative affinchè non accada mai più. Oggi, per ragioni anagrafiche, i testimoni diretti stanno scomparendo come pure i figli della Shoah. Il pericolo di una rimozione collettiva è quindi incombente. Per questo dobbiamo continuare ad agire e a testimoniare: per noi, per tutti, resta un dovere primario. Aggiungo che da parte della comunità ebraica c’è il forte interesse a che non aumenti l’antisemitismo, che cova ancora sotto la cenere, e che nella società, come nella politica, non emerga e non si rafforzi una tendenza all’intolleranza verso i diversi, gli immigrati o altre minoranze. Si inizia con questa intolleranza e si finisce come nel 1938.

Lei, in Italia e in Europa, può essere considerato uno dei più autorevoli eredi di una tradizione antichissima: qual è il suo lascito alle nuove generazioni? Cosa pensa debba essere recuperato oggi tra ciò che si sta perdendo?

Sono molte le cose da recuperare, ma questo non è il primo momento di crisi che attraversa la nostra realtà. C’è un diffuso senso di egocentrismo che fa sentire le persone al centro della realtà e al contempo apparentemente sciolte da qualsivoglia legame: la conseguenza è la scarsa capacità di avvertire l’altro come persona che sta nella stessa tua condizione. Dovremmo invertire questa tendenza usando più la testimonianza che la predicazione. Tuttavia vi sono difficoltà in un mondo come questo, che offre modelli – a mio avviso – non meritevoli di essere tali. Pensi ad esempio a trasmissioni come l’Isola dei Famosi, il Grande Fratello o Amici, come pure allo “spettacolo” devastante offerto di recente dal nostro sistema politico. Non dobbiamo lasciarci cullare sulle onde del tempo, subendolo, ma essere piuttosto in grado di andare controcorrente, tentando di attribuire senso, valore e spessore a quanto facciamo.

Lei, con coraggio e determinazione, è stato un precursore e il maggiore fautore del dialogo tra ebrei e cristiani assieme al cardinal Martini: qual è lo stato attuale del confronto tra queste due religioni e culture?

La situazione del dialogo è cambiata in peggio. Martini, venendo dal Biblico di Roma, inaugurò a Milano, e da lì in Italia e in Europa, la stagione del confronto e del dialogo ebraico-cristiano e io fui accanto a lui. Martini ha aperto una strada in un mondo in cui, nè da parte cristiana nè da parte ebraica, c’era (e talvolta c’è) grande disponibilità. Siamo andati avanti assieme, per anni, nonostante le molte perplessità delle rispettive comunità: da parte ebraica per il timore di una volontà di conversione e per i secoli trascorsi di persecuzioni di matrice cristiana, da parte cattolica in nome dell’accusa di “deicidio”, della teologia della sostituzione, e dell’occultamento quasi bimillenario delle radici ebraiche della fede cristiana. Sempre a Milano, ricordo la sincera vicinanza e l’operosa collaborazione avute anche con il Cardinale Tettamanzi, mio caro amico. Un limite del dialogo resta tuttavia, da sempre, la sua dimensione verticistica, che non coinvolge ad esempio i parroci, quelli direttamente a contatto con i fedeli e quindi di importanza fondamentale. Con la malattia di Martini e l’avvento di Benedetto XVI la stagione del dialogo si è indebolita e rallentata, ma l’importante è che non ci si fermi. Al momento i presupposti sono che esso continui e le occasioni non mancano, come gli incontri a San Fedele a Milano o le Giornate dell’Ebraismo o, ancora, la recente visita di una delegazione ecclesiastica presso la nostra sinagoga anconetana in occasione del Congresso Eucaristico. Ricordo con grande piacere l’intenso incontro con l’Arcivescovo Menichelli e i Cardinali Bagnasco e  Re. Bisogna che ci attrezziamo tutti per arrivare assieme alla meta della collaborazione e della piena riconciliazione: un cammino talora difficile, ostacolato da stanchezza e scetticismo, anche perchè non è facile togliere incrostazioni millenarie.

Nel gennaio 2010 decise di non presenziare alla visita di papa Benedetto XVI alla sinagoga di Roma in seguito al pronunciamento del pontefice sulle “virtù eroiche” di Pio XII: rifarebbe quella scelta che fece tanto discutere? Da allora qualcosa è cambiato?

Certo che rifarei quella scelta! Anche perchè, da allora, poco è cambiato. Presi quella iniziativa senza fare chiasso: mi limitai a rilasciare un’intervista ad un giornale tedesco che ebbe vasta eco e attirò su di me anche le critiche di una parte della comunità ebraica. Quelle frasi del Pontefice mi sembrarono quasi come una provocazione. Non avrebbe potuto pronunciare quelle parole, ad esempio, dopo la visita? Certo non immediatamente a ridosso! E poi, vogliamo parlare delle “virtù eroiche”? Secondo noi è stato grave che un papa, una così alta guida morale, non abbia denunciato al mondo l’atroce malvagità del nazismo e dell’antisemitismo. E poi non dimentichiamo che egli continuò a regnare per numerosi anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. E quindi mi chiedo: dopo la guerra, dopo il Processo di Norimberga, dopo aver appreso la verità sconvolgente dello sterminio sistematico di milioni di persone, non una parola di denuncia, di condanna, di richiesta di scuse per i cattolici che aderirono al nazismo? Di più, non si sentì nemmeno in dovere di ripensare l’orazione del Venerdì Santo sui “perfidi Giudei”. Morto Pio XII, il suo successore, Papa Giovanni XXIII, avviò subito una prima riformulazione di quella tremenda preghiera. Pio XII evidentemente mancò.

Nel suo ultimo libro “Joseph Ratzinger: la crisi di un papato”, il vaticanista Politi dedica un capitolo all’ “ira dei rabbini”: che valutazione può dare, se se la sente, del pontificato di Benedetto XVI?

Quando Benedetto XVI fu eletto, in un’intervista apparsa sul mensile “Jesus”, formulandogli i migliori auguri di un fecondo pontificato, dissi che secondo me il nuovo papa avrebbe seguito le tracce del suo predecessore. Ma mi sbagliai. Sembra quasi che questo papa non si lasci consigliare dalle persone giuste o – peggio – si faccia consigliare dalle persone sbagliate. E in alcune occasioni ha sbagliato anche la tempistica di alcune sortite.

Un auspicio per l’Italia, alle prese con una delle prove più importanti della sua storia recente?

L’Italia, come ha fatto in passato, uscirà bene anche da questa situazione. Speriamo che le cose migliorino e che questo governo non venga azzoppato presto, altrimenti non si andrà lontano. L’auspicio è che in Italia possa prevalere un senso di altruismo che consenta di andare oltre il “particulare”, contribuendo a creare una società il più possibile giusta. L’orizzonte attuale è davvero troppo basso, occorre necessariamente elevarlo.

Secondo lei perchè, in Italia, al di là della presenza fisica della chiesa cattolica, fatica ad affermarsi un pensiero autorevolmente laico – e mi sentirei di aggiungere anche liberale – nonostante la nostra storia abbia conosciuto importanti pensatori e pure uomini politici (anche Dc) autenticamente laici?

Beh, la presenza fisica della Chiesa ha avuto e ha un ruolo determinante nel frenare l’affermazione di principi autenticamente laici, come per converso l’anticlericalismo. La nostra società, poi, ha ereditato un’atmosfera che continua a sprigionare impulsi che condizionano. E poi c’è un diffuso senso di fatalismo, che porta all’inattività e alla rassegnazione, quando invece ci sarebbe bisogno di persone coraggiose, pronte a spendersi e a combattere per una vita associata più equa, meno conflittuale, che tuteli la dignità e la libertà di ciascuno, veicolando alcuni valori fondanti. Ecco, vedo dilagare questo fatalismo, questo semplicismo e questo senso morale molto molto relativo e labile.

Lei insegna all’Università e ha sempre vissuto nel mondo accademico: che giudizio da delle recenti riforme del sistema universitario? Più in generale, qualcuno rimpiange addirittura l’impianto originario della riforma Gentile, datata 1929, magari da aggiornare: è d’accordo?

Lo Stato non dedica sufficienti risorse economiche alla Scuola e all’Università e, in generale, il corpo docente non è molto preparato. Inoltre le risorse giovani che vorrebbero o potrebbero dedicarsi all’insegnamento vengono bloccate e frustrate. Sul fronte politico, negli anni sono state scelte persone palesemente non all’altezza del compito loro affidato, oppure non ci sono state idee e progetti forti o, ancora, c’è stata l’arroganza di non chiedere consigli a chi opera alacramente nell’università. Le lauree brevi, che a detta di alcuni avrebbero dovuto riformare il settore, si sono rivelate un fallimento. Anche a mio avviso la riforma Gentile, certamente da aggiornarsi, era un impianto serio, notevolmente migliore dal punto di vista della formazione umana, culturale ed accademica rispetto al bailamme che ahimè si è succeduto. Aggiornata e sicuramente potenziata per quanto attieni gli studi scientifici, sarebbe probabilmente da reintrodurre.

Quando ci fu il dibattito politico pro o contro i Pacs si dichiarò favorevole. La pensa sempre così?

Sono sempre a favore, certo. L’ordinamento giuridico di uno Stato esiste per tutelare tutti i cittadini, nessuno escluso; lo Stato non coincide con le singole confessioni religiose che a tale riguardo assumono legittimamente differenziate specifiche posizioni. Non è cosa ovvia? Non riesco davvero a vedere i motivi effettivi per cui lo Stato non debba riconoscere tali unioni.

Come definirebbe, con due o tre aggettivi, i giovani di oggi? Quale testo biblico e quale filosofo consiglierebbe loro di leggere?

Sono alla ricerca di qualcosa che vorrebbero ma che non sanno cos’è. Qualcosa che dia loro un senso che sembra invece sfuggire. A questi giovani consiglierei il Qoheleth certamente, ma ancor più il libro di Ruth, dove sono forti i sentimenti di bontà e generosità, forza, speranza, affetto vibrante. E poi consiglierei loro di guardare bene l’affresco di Raffaello “La scuola di Atene”, nei Musei vaticani, in particolare quel dito che punta verso l’alto, che indica la necessità di alzare l’orizzonte. Inoltre consiglierei loro di andarsi a rileggere qualche dialogo platonico.  Insomma, le due radici spirituali, culturali, morali dell’Occidente e dell’Europa: quella greca e quella biblica.

Un suo ricordo personale di Carlo Maria Martini…

Ricordo le prime volte che lo incontrai. Era timido e ieratico, ma col tempo si aprì sempre più, rivelando quella sua grande capacità di esprimere sentimento, di infondere fiducia, di essere un punto di riferimento. Il suo ruolo nel dialogo tra ebrei e cristiani è stato fondamentale e insostitutibile e spero che Dio conceda a questo amico carissimo di vivere ancora a lungo e serenamente e di continuare a dare il suo prezioso contributo affinchè il cammino straordinario del dialogo ebraico-cristiano continui.

(Testo integrale dell’intervista raccolta da Cristiano Bendin, giornalista de “Il Resto del Carlino”, parzialmente pubblicata il 27 novembre 2011 sulle edizioni di Macerata e Ancona dello stesso quotidiano)