Parashat Shelach lecha

Parashat Shelach Lechà. La percezione della realtà è soggettiva

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Nella Parashat Shelach Lechà vengono definiti i successivi quaranta anni del popolo di Israele nel deserto. Durante gli eventi nel deserto viene alla luce molto chiaramente il criterio che definisce chi sarà capace di arrivare a vivere in libertà e chi non lo sarà. Di conseguenza è proprio in questa parashà che si determina il futuro di tutta una generazione: chi morirà nel deserto e chi invece giungerà a vivere nella terra di Israele.

Moshè mettendo in pratica le istruzioni di Dio, invia una delegazione di dodici uomini a scoprire le caratteristiche della Terra di Israele prima che vi giunga tutto il popolo. Si tratta dei capi delle dodici tribù che non partono per proprio volontà, ma che sono inviati. Non si tratta di spie come quelle che verranno inviate in seguito da Yeoshua (Giosuè). Questa è una delegazione diplomatica che non si nasconde e che dovrà riportare più tardi informazioni di carattere militare.

Gli inviati devono giungere alla terra e osservarne le caratteristiche, devono vedere le sue città, gli uomini che le abitano, di quali armi dispongono, per poter poi informare Moshé e tutto il popolo di quello che hanno visto. I delegati portano a termine la loro missione: al loro ritorno consegnano le loro informazioni, chiare ed obbiettive, senza alcuna distorsione. L’informazione è positiva.

La crisi nasce quando gli informatori eccedono rispetto alla missione che era stata loro affidata e che consisteva nel rilevare e riportare le caratteristiche della terra destinata al popolo di Israele. Dopo aver presentato in maniera unanime una informazione positiva, cominciano individualmente ad inserire proprie conclusioni rispetto alle realtà che hanno visto. Non mettono in dubbio il valore della terra, bensì la possibilità del popolo di Israele di conquistarla. In definitiva entra in gioco la soggettività di ciascuno. A questo punto la differenza rispetto all’informazione iniziale è importante: solo due rimangono ottimisti, contro i dieci che sostengono che l’impresa sia impossibile da portare a termine.

Ma allora perché Moshé ha inviato degli uomini per esplorare la terra? Quando Abramo emigrò per ordine di Dio, osservò il comandamento di dirigersi verso “la terra che ti mostrerò” senza sapere dove stesse andando, camminò in nome di un ideale oggettivo supportato dalla soggettività della sua fede. In questo momento che il popolo di Israele non aveva alternative, perché avrebbe dovuto conoscere in maniera preventiva la terra che gli era stata destinata? La risposta è che Moshé cercò di trasformare l’evento compulsivo in oggetto di desiderio.

Certamente il popolo di Israele non aveva nessuna altra alternativa se non quella di dirigersi verso la terra promessa. Dovevano dirigersi verso di essa per obbligo. Moshé sperava che un’informazione positiva da parte dei suoi inviati avrebbe motivato l’intero popolo e gli avrebbe fatto interiorizzare la sua volontà ed il suo desiderio di azione. Di fronte ai dubbi dei delegati ed al pessimismo di dieci tra di essi, il popolo reagisce con disperazione, assume un approccio fatalista e senza speranza e si arrende ancor prima di cominciare il suo compito.

Dio, alla fine, si infuria contro il suo popolo: “Non gli ha già dato sufficienti dimostrazioni della Sua tutela e della Sua protezione?” Il popolo, una volta ancora, reagisce mettendo in discussione la fede. Dio, rendendosi conto di come il problema affondi nella personalità degli uomini, nella loro stessa mentalità di esseri sottomessi, giunge alla conclusione che tutti coloro che hanno perso la speranza, non potranno diventare uomini liberi. Dio propone a Moshé di distruggere tutto questo popolo e di crearne un altro partendo dalla sua discendenza, ma alla fine opta per una soluzione che non coinvolge la totalità del popolo di Israele ma solo le persone psicologicamente prive della possibilità di giungere alla libertà: “la generazione del deserto”, la generazione di coloro che furono schiavi e conservano la condizione di pessimismo e di assenza di fede, non entrerà nella terra di Israele.

Questa conclusione allude al modo in cui il sistema di riferimento soggettivo di ciascuno ne condizioni la percezione. Ognuno può vedere la stessa cosa e percepirla in maniera differente, in base alle esperienze vissute ed a ciò che ha visto in precedenza. I delegati dimostratisi pessimisti hanno probabilmente avuto due timori diversi: dal punto di vista spirituale, forse hanno avuto timore che il bisogno di lottare e di lavorare nella terra di Israele avrebbe attentato alla vita religiosa, alla santità che il popolo ebraico aveva acquisito nel deserto, dove nessuno doveva fare nulla per sopravvivere; dal punto di vista materiale hanno forse temuto che il popolo di Israele non avesse le forze necessarie per vincere una guerra di conquista.

A differenza di essi, Yeoshua Bin Nun e Calev Ben Yefunè, i due delegati che avevano parlato in modo positivo, non dimenticarono nemmeno per un momento che la vita di santità diventa realmente tale quando l’uomo riesce a superare la quotidianità del lavoro e della lotta per la vita. Con una visione pragmatica, coscienti della protezione che Dio ha esercitato sul popolo lungo tutto il cammino compiuto, essi mantennero la fede nel fatto che le sfide future sarebbero state le certificazioni che tutto ciò che era accaduto aveva una finalità valida e degna di essere trasformata in realtà.

Di Rav Heliau Birnbaum