Gli ebrei nel deserto nel dipinto di Jacopo Tintoretto

Parashat Beha’alotèkhà. A volte dal lamento nasce il problema

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò

Questa parashà ci mostra il popolo di Israele che esperimenta diverse frustrazioni, a causa delle quali protesta e si lamenta davanti a Dio. In un uno di questi casi il popolo vive un senso di “vuoto” senza che vi sia alcun motivo particolare. È la percezione di tale vuoto che provoca un lamento che è fine a se stesso. La Torà ci racconta, in questo caso, che Dio reagisce incendiando parte dell’accampamento. L’altro caso è ben differente. Il popolo vive una necessità concreta e reclama: “Chi ci darà carne per mangiare?…Ci manca il pesce…”. Non è che il popolo abbia fame, perché con la manna riesce a gustare tutti i sapori che desidera, ma si sente stufo di mangiare sempre la stessa cosa. Di fronte alla lamentela per una mancanza concreta, indipendentemente dalla sua validità, Dio soddisfa la richiesta del popolo e gli invia carne da mangiare.

Questi due casi sono una porta che si apre, attraverso cui comprendiamo le circostanze nelle quali è valido reclamare. La Torà non si oppone all’uomo che si lamenta, che critica e reclama, purché abbia una ragione specifica e concreta per farlo. In varie occasioni il popolo di Israele si è lamentato davanti a Dio ed Egli ha accettato le sue lamentele. La Torà ci fa notare che anche Abramo si lamentò di fronte al Creatore, così come, più volte, si lamentò lo stesso Moshé.

La situazione acquisisce una diversa valenza e diviene problematica quando ci si lamenta a vuoto, senza un motivo apparente, quando ci si lamenta e si piange senza un perché. A volte ci si lamenta idealizzando le situazioni, alienandosi dalla realtà. Non si è coscienti di ciò che accade effettivamente intorno a sé, si chiudono gli occhi e, con essi, si chiude anche la possibilità di comprendere le ragioni della propria lamentela. In questo modo, l’ambiente negativo, lontano da essere causa di tristezza e di lamentela, risulta essere la sua conseguenza.

La vita nel deserto era sicuramente passiva e noiosa. La stessa noia può essere stata, come spesso accade, la vera causa dei reclami e delle lamentele. Nel corso del suo viaggio verso la libertà, verso l’indipendenza come nazione, il popolo di Israele avverte una nostalgia per l’ “Egitto”. Il paese della schiavitù sembra trasformarsi, nella sua memoria, in una colonia di vacanze. Il popolo lamenta la mancanza del pesce che mangiava in Egitto. In proposito Rashi osserva con ironia: “La paglia per mattoni non la ricevevano gratis e dovevano raccoglierla da soli, mentre il pesce sì?” Questo è l’altro Egitto che adesso viene ricordato. Nella noia, la memoria è totalmente distorta che il passato viene idealizzato. E’ una situazione che si è ripetuta varie volte nella storia recente del popolo ebraico.

Nel primo caso riportato dalla Torà, quando il lamento non aveva alcun motivo, Moshé si comporta con diplomazia: semplicemente non reagisce. Non avendo nulla da rispondere, non avendo nulla di concreto da dire, osserva silenziosamente il corso degli avvenimenti ed aspetta. Nel secondo caso, al contrario, Moshé è cosciente che la lamentela si riferisce ad una necessità concreta e sa bene che il soddisfarla è al di là delle sue capacità. In questo momento sì, avendo qualcosa di concreto da rispondere, Moshé affronta il problema, comprende la necessità e patisce di non poterla soddisfare. È frustrato da tale incapacità e cerca l’appoggio in Dio per affrontare la situazione.

Dio a sua volta si relazione con la richiesta di carne inviandone al popolo molta più di quanta ne fosse necessaria, facendo sì che ne faccia indigestione. E’ un ulteriore insegnamento: a volte si è insoddisfatti anche se immersi nell’abbondanza. La soddisfazione sembra non dipendere tanto da ciò che si possiede, quanto dalle proprie ambizioni e dalla propria armonia interiore.

(Foto: Jacopo Tintoretto, Gli ebrei nel deserto, 1593, Chiesa di San Giorgio Maggiore, Venezia)