Anche il Tablet Magazine parla di Jewish in the City #150, “un assaggio di cultura ebraica”

di Nathan Greppi

livia-alpeck-ripkaA dimostrare quanto abbia avuto successo il festival Jewish in the City #150 la reporter australiana Livia Albeck-Ripka ha recentemente pubblicato un articolo sul sito americano Tablet Magazine, in cui descrive ciò che ha provato quando era al Festival:

Ho visitato innumerevoli comunità ebraiche e memoriali dell’Olocausto nei due anni in cui ho vissuto in Europa. Qui portò la mia eredità come un peso morto per tutto il continente, e mi sento come se fosse il mio dovere scoprire la storia ebraica di ogni città, specialmente delle comunità che in passato sono state sradicate.

La mia identità come ebrea australiana (sono australiana solo perché i miei nonni furono espulsi da Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria) mi ha guidato nel mio itinerario, portandomi dal Tempio Maggiore di Roma e dagli scuri blocchi di cemento del Memoriale della Shoah di Berlino al Cimitero Ebraico di Praga. La viscida mano della storia mi ha stretta nella sua morsa quando i miei genitori, i quali portano il peso di essere superstiti della seconda generazione, sono venuti a trovarmi qui in Italia. Sono persino riusciti a fare un giro nel Vaticano, cuore del Cattolicesimo, guardandolo da una prospettiva ebraica. Dio li benedica.

Ma nessuna di queste esperienze mi ha scossa nel profondo quanto vedere il Memoriale della Shoah di Milano, posizionata sulla 21° piattaforma della Stazione Centrale, dalla quale gli ebrei milanesi vennero deportati nel 1944. Ogni qualche minuto si possono sentire treni in partenza che sbuffano di sopra, facendo sembrare il passato stranamente recente. Durante il fine settimana ho visitato il Memoriale per sentire le testimonianze dei sopravvissuti durante il festival “Jewish in the City”, per festeggiare il 150° anniversario della Comunità Ebraica di Milano. 

L’evento, durato tre giorni, ha offerto ai visitatori musica, lezioni di cucina, letture e mostre tutte legate alla storia della Comunità Ebraica Milanese. Fondata nel 1866, quella che oggi è una popolazione di 8000 persone ha le sue origina nella vicina area di Mantova, dove si erano insediati dopo un decreto del 1597 che consentiva agli Ebrei di stare a Milano per tre giorni consecutivi per fare affari (ad esempio quando c’era il mercato). Dopo l’Unità d’Italia, avvenuta nel 1961, agli Ebrei fu nuovamente consentito di insediarsi nella città. La Comunità crebbe rapidamente: nel 1938, quando i fascisti imposero le leggi razziali, vivevano 12.000 Ebrei a Milano. Oggi la Comunità è un miscuglio tra le famiglie presenti da prima della Seconda Guerra Mondiale ed immigrati mediorientali fuggiti dai paesi islamici durante le guerre arabo-israeliane.

Le variegate radici della popolazione ebraica di Milano hanno ispirato un corso di cucina a cui ho partecipato a EATALY, l’equivalente culinario dell’IKEA. Al secondo piano, saturo dell’odore di pasta e formaggio, la chef romana Daniela di Veroli ci ha insegnato come preparare un pasto milanese per lo Shabbat: challah, riso persiano, sefra libico e zucchine libanesi con albicocche. “Il cibo è cultura” ha dichiarato la DI Veroli, “è la cosa migliore che possiamo fare per conoscerci a vicenda nel mondo”. Immersa nell’impasto del Challah, la mia compagna impastatrice Veronica Pogliaghi ha detto che questa lezione era il suo primo contatto con l’Ebraismo. “Adoro cucinare” ha detto, “e non avevo mai incontrato prima degli ebrei”.

Questa integrazione tra gli Ebrei Milanesi e i non-ebrei era uno dei punti chiave del Festival, mi ha raccontato Rav Roberto Della Rocca tra un boccone e l’altro di riso con uvetta e sorsi di vino della Galilea. “In ogni tempo e occasione la gente parla solo sulla Shoah” ha detto, “quindi è molto importante mostrare alle persone che la vita e la cultura ebraica non sono solo sofferenza”.

Attraverso le sue parole, ho trovato un nuovo modo di trovare il mio posto come ebrea in viaggio per l’Europa: non solo come un’esiliata che ritorna, ma anche come parte di un popolo eternamente nomade, che ovunque si sia insediato ha inevitabilmente creato qualcosa, più probabilmente cibo. E mentre cucinavo mi domandavo se forse dovremmo ringraziare le persecuzioni, perché senza di esse non ci sarebbero i Carciofi ala Judea romani, i Sarde i Saor veneziani, il couscous ebraico-tunisino, la torta al miele polacca o, più importante, il miglior challah del mondo che si trova a Melbourne, in Australia.

Mentre viaggio attraverso l’Europa, farò più attenzione alle sagge parole di Rav Della Rocca: “Hanno cercato di ucciderci, siamo sopravvissuti, ora mangiamo!”. Ovviamente in Italia questa regola si applica doppiamente.